Filippo Ceccarelli per “la Repubblica”
È un dono prezioso, quest’ultimo libro di Stefano Malatesta che esce proprio nel momento in cui fra topi, guano, criminali, malgoverno, non-governo, paura, scemenze e schifezze di ogni ordine e grado, l’idea della città eterna non è mai apparsa così miseranda.
Non si ride nemmeno più, né si piange; per cui non rimane che leggere, con insperato sollievo: Quando Roma era una paradiso (Skira, pagine 138, euro 15). E scoprire o ricordare che non sempre è stato così; e approfittare di questa consolazione tanto più efficace quanto più libera da nostalgia o recriminazioni, solo un lieto e sereno fluire di memorie, e la poesia che viene fuori dove meno te l’aspetti.
Un gelato a forma di fettuccine; le messe in scena di un mercante d’arte imbroglione; un’accolita di balie avide di gioielli che placavano i poppanti a loro volta succhiandoli là dove meno (oggi) si penserebbe.
Roma allegra e selvaggia. Un inquieto e intelligentissimo falsario. Avventurosi bagnini di Ostia, dandy disadattati, cinematografari di sublime ignoranza, artisti maledetti e sciamanici, guardiani e depezzatori obitoriali che tenevano fresche le birre nei frigoriferi accanto ai cadaveri.
Roma imprevedibile e stranita come la ricorda un bambino, poi nello sguardo di un fervido adolescente e infine nella vita di un giovane uomo alla ricerca di avventure non solo intellettuali.
Una città a tal punto rinvigoritasi nel formidabile dopoguerra da lasciar credere per prima a se stessa non solo di aver combattuto in società con gli Alleati, ma di potersi perciò godere la pace, e il benessere, e il progresso, e la pastasciutta triplo burro con posate d’oro, senza fare assolutamente nulla di produttivo.
E infatti, viene da pensare, ecco i risultati. Ma pazienza: chi c’era, c’era e chi non c’era, peggio per lui. È stato bello così, comunque il lettore ringrazia. E se sotto i pini di Castelporziano, là dove i romani andavano a far l’amore nelle automobili con le tendine, ci sono oggi accampamenti di poveracci arrivati chissà da dove;
mario schifano anita pallenberg
e se quello stesso Infernetto, che ieri vide il fusto Maurizio Arena procedere all’ostensione di Titti di Savoia ai paparazzi, ospita oggi grigi e tristi gialli internazionali di cui vergognarsi — Ochalan, Shalabayeva — beh, almeno la letteratura illumina il tempo oscurato, così come l’aneddotica trasmette qualcosa che la storia di norma sacrifica e che con la dovuta approssimazione si può far coincidere con l’umanità.
In quella Roma degli anni 40 e 50 arrivavano e stazionavano Orson Welles (in trattoria con Togliatti), George Santayana (in un convento del Celio), Tristan Tzara e Marcel Duchamp (incontro a sorpresa nella galleria di Plinio De Martiis), Sebastián Matta che parlava come Helenio Herrera; poi Truman Capote, Gregory Peck, Lauren Bacall, Audrey Hepburn e moltissimi altri divi. Ma a trastullarseli trovavano pur sempre romani intelligenti e spassosi, affamati di vita, di grano, di cultura, di vizi e di successo.
MAURIZIO ARENA QUANDO ROMA ERA UN PARADISO
Sempre un po’ in bilico, come accade, fra l’opera di genio e la truffa, non di rado eccentrici e “paraculi”, termine di cui si apprende l’etimologia derivante dai pantaloni rinforzati sul sedere che le mamme confezionavano ai figlioli dediti al furto “col salto” sul retro dei camion di derrate. Fra orge e musei, scorribande nell’agro e sbronze a svanire nei tramonti, restano impressi il barattolo di cocaina che Schifano nascondeva sotto il cuscino del letto;
il poeta Zeichen che esce tutto acchittato dalla sua baracca sotto Villa Borghese; la lingua “lustra come il manto di una foca” che il celebre fake- buster, Pico Cellini, passò sopra un bassorilievo per poi decretarne la contraffazione, oltre ad alcune pagine definitive sulla grevità della cucina cosiddetta romanesca. Per vie tortuose e ineffabili corrispondenze,
Stefano Malatesta si avvicina all’arcano degli arcani, al sancta sanctorum dello spiritus loci, quell’«impronta che assai per avventura — la designa G. G. Belli nella magnifica introduzione ai Sonetti — si distingue da qualunque altro carattere di popolo».
VACANZE ROMANE QUANDO ROMA ERA UN PARADISO
Un cinismo dolente, si direbbe, temperato dal buon umore; una brusca incuriosità in torsione con la meraviglia; una danza perpetua col paradosso per non prendere nulla sul serio, o forse tutto troppo, per quel poco che vale.