Estratto dell’articolo di Luigi Bolognini per "La Repubblica"
Raccontò Shirley Temple: «Ho smesso di credere a Babbo Natale quando avevo 6 anni. La mamma mi portò in un centro commerciale per i regali, per intrattenere i bambini c’era un Santa Claus. Stavo per chiedergli un autografo quando lui lo chiese a me». Nikka Costa ascolta divertita questo aneddoto: anche lei è stata una bambina prodigio, non nel cinema, ma nella musica. Le differenze sono due.
Una la dice lei: «Ho avuto un’infanzia meno traumatica». L’altra è che, una volta cresciuta, la bimba dai riccioli d’oro si diede ad altro, politica compresa (fu ambasciatrice degli Usa all’Onu), Nikka ha continuato a fare musica, «magari con qualche intervallo, ultimamente, sei anni tra lockdown e figli, diciamo che me la sono presa comoda». Ma adesso ci siamo: il 7 giugno esce il nuovo album Dirty disco, zeppo di sonorità anni Settanta e Ottanta.
Intanto parliamo del disco. Perché il titolo discoteca sporca?
«Perché in una discoteca sporca nessuno ti guarda, nessuno ti giudica, puoi essere te stesso e fare quello che preferisci. “Tutti sono benvenuti, tutti sono avatar”, dico in una canzone. Come dire che possiamo mascherarci, se vogliamo, sennò mostrarci per come siamo. Insomma, un inno alla libertà».
I tempi migliori per cantarlo, no?
«Non mi ci faccia pensare: ogni tanto ho i brividi guardando il mondo in cui ho fatto nascere i miei bambini. Poi farò quel che potrò con loro: gli insegnerò a seguire il cuore ed essere delle brave persone. Certo non gli insegnerò a essere famosi, quelle sono cose che succedono per caso come a me».
Le va di parlare di quei tempi?
«Nessun problema: della mia infanzia ho solo ricordi bellissimi».
Già è molto: i bambini prodigio spesso da adulti la odiano.
«Ma io non ero una bambina prodigio: ero la figlia di un papà bravissimo come Don Costa, che sarebbe morto due anni dopo, nel 1983. Giravo il mondo con lui per fare una delle cose che ho sempre più amato, cantare, vedevo posti incredibili e saltavo pure la scuola.
Certo, i ritmi erano frenetici, eravamo sempre in viaggio, ma i bambini si adattano a tutto. Ecco, magari per sentirmi una della mia età dovevo svegliarmi a notte fonda e mangiare di nascosto della cioccolata. Ma c’è di peggio nella vita, no?».
Tanti in Italia la ricordano ancora quando nel 1981, a 9 anni non ancora compiuti, salì sul palco di Sanremo per cantare “On my own”, subito prima in hit parade. Che ricordi ne ha?
«Vuole la verità?».
Sempre.
«Nessuno. I ritmi erano così frenetici che il palco di Sanremo mi è sembrato uguale a quello del giorno prima e a quello del giorno dopo».
E dell’altro suo Sanremo ricorda qualcosa? Nel 1990 venne a cantare la versione in inglese di “Vattene amore” .
«Oh certo. Bellissima canzone, in inglese si intitolava All for the love. In Italia è ancora ricordata?». […]
E Amedeo Minghi?
«Chi?».
Ma come! L’autore della canzone oltre che interprete con Mietta. Un biondo con la coda.
«Oddio, ma sa che davvero non ricordo? Ma è sicuro?».
Senta, però qui in Italia grazie a quei due festival lei è ricordata come una bimba di 8 anni o come una ragazza di 17. Invece ne ha 51, quasi 52. Che effetto le fa?
«Mi fa venire voglia di venire a vivere in Italia e avere l’eterna giovinezza. No, che devo dirle? Sono sempre felice quando mi si parla di quei tempi perché è un modo anche di ricordare il mio papà. Però ho fatto anche altro, dopo». […]
Di che nazionalità si sente?
«Italo-americana. Anche se mi vergogno ad ammettere che non so una parola di italiano».
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