Ricardo Staglianò per il Venerdì-Repubblica
State abbottonatissimi. Perché basta uno con un cellulare per trasformare un incontro tra
quattro gatti in una mondovisione. Lo scopre a sue spese Adeline, la protagonista di Io odio internet (Fazi), il sorprendente romanzo di Jarett Kobek. Lei, quarantenne autrice di fumetti, si limita a dire a un pubblico di ragazzi che se scarichi libri, film, musica stai rubando.
Un’ovvietà. Che le vale il seguente messaggio da un anonimo detrattore: «Ciao troia,
spero che tu venga violentata da una banda di immigrati clandestini sifilitici».
Normale amministrazione, scrive l’americano di origini turche già autore di una biografia immaginaria del terrorista Mohammed Atta, perché internet, «invenzione meravigliosa», è «una rete informatica che gli esseri umani usano per ricordare ai loro simili che sono degli schifosi pezzi di merda».
Bella forza, direte, basta un rapido giro su Facebook o Twitter per imbattersi nella signora che dà della storpia alla miss amputata o in ultras no-vax tanto preoccupati per la salute dei figli loro quanto lesti ad augurare la morte a quelli della ministra. L’originalità è che Kobek spiega, meglio di tanti saggi, che il wrestling nel fango non è un danno collaterale del sistema. È il sistema.
«Progettato con il solo scopo di massimizzare la quantità di cazzate che la gente digita sui propri computer e telefoni. Maggiore è l’interconnettività, maggiori sono i profitti. È il feudalesimo a servizio dei marchi e si fonda sull’indurre gli esseri umani a indulgere ai loro soliti istinti peggiori».
Non si poteva dire meglio.
A quanto pare «l’unico peccato imperdonabile di internet» è dire la verità, mostrare che il re è nudo?
«Quando scrivevo il libro, tra il 2014 e il 2015, il titolo sembrava quasi un’esagerazione. Non a caso l’ho dovuto pubblicare per conto mio: nessuno lo voleva, nessuno lo diceva. Mentre oggi criticare Zuckerberg o dire che i social stanno rovinando la democrazia fa parte del discorso pubblico. L’apparente provocazione è diventata una deprimente realtà».
Le sembra che internet sia stata dirottata rispetto alle origini o è sempre stata così?
«È stata concepita dai militari ed è difficile sfuggire a quell’imprinting. Tuttavia assistiamo a molte conseguenze non preventivate. Nel ‘96, per dire, il Congresso varò il Communications decency act, una legge contro la pornografia online. La sezione 230 escludeva ogni responsabilità per le piattaforme. Se si scrivevano bestialità sui forum online, gestori e service provider non sarebbero stati responsabili come editori. In quel momento, che ha incentivato i comportamenti più orribili, è nata l’internet che odio.
E quando Twitter o Facebook fingono di voler risolvere il problema in realtà sanno benissimo che non gli conviene affatto perché le cose scritte più sono abominevoli, o semplicemente fake, più generano traffico. Quindi denaro per loro».
Lei cita ingenuità celeberrime, come attribuire la paternità delle primavere arabe a Twitter e Facebook, quando ovviamente è stata una rivoluzione di persone che ha generato un’enorme pubblicità gratuita ai social network. Come diventare meno creduloni?
«Nel libro ci sono più domande che risposte. Ma la prospettiva è fosca. Mi sembra che gli unici tentativi seri di resistere ai giganti tecnologici vengano dall’Unione europea. Dall’America niente, d’altronde quella di Big Tech non è altro che una nuova forma di imperialismo commerciale, in modalità stealth. A meno che, in questo quadro neofeudale in cui i servi della gleba non partecipano affatto alla ricchezza che producono per i signori, scoppi una rivolta a colpi di Adblocker».
Però, bloccando la pubblicità online, l’Adblocker danneggerebbe anche i giornali…
«Vero. È complicato. In ogni caso i giornali hanno già sofferto molto per colpa di internet. Una volta chi faceva il New York Times non sapeva esattamente quali articoli i lettori apprezzassero. Ora lo sa alla perfezione ma ciò ne ha peggiorato molto la qualità. Basta guardare con quanta enfasi scrive dell’ultimo modello di iPhone che, come gli piace ripetere, ha cambiato tutto. Finendo per assomigliare più a Buzzfeed che al gran giornale che era. Più in generale ieri i grandi scoop li faceva Seymour Hersh sul Vietnam, oggi Ronan Farrow sul #MeToo».
I petrolieri di Dallas e i finanzieri di Wall Street non fingevano di essere buoni, mentre i capitalisti della Silicon Valley ci tengono a dire di voler «rendere il mondo un posto migliore». Perché quest’ipocrisia?
«Temo che non se ne accorgano neppure. Deriva dal senso di essere nel giusto nato nelle università californiane negli anni 60. A Steve Jobs piaceva raccontarsi come un hippie. Il motto di Google è Don’t be evil, «non fare il male», tranne poi trovarsi a letto con la Cia. È lo stile della Bay Area. Che però si è rivelato insostenibile a partire dalla fine del 2016: non puoi più dire che stai rendendo il mondo un posto migliore quando poi va al potere Trump.
In ogni caso la correttezza politica produce mostri. Va benissimo lavorare per la Boeing che produce caccia con i quali l’esercito uccide migliaia di musulmani; ma se, da dipendente Boeing, ti beccano a fare un commento islamofobo ti licenziano in tronco. Ucciderli è ok, infamarli no».
Lei denuncia l’estrema gentrificazione di San Francisco, originariamente «un posto per quelli che non sapevano
fare i soldi», e ne dà una splendida definizione. Ce la ripete?
«“È il fenomeno che si verifica in una città quando persone con un eccesso di capitale vogliono che il loro capitale produca più capitale senza dare nessun valore al lavoro”. Affittuari decennali vengono cacciati per fare spazio ai giovani dipendenti di Google, scorrazzati in bus privati extralusso. Gli appartamenti diventano bancomat. Ma solo l’1 per cento dei più ricchi può permetterseli. È un incubo».
E il feticcio della disruption, bellezza…
«La distruzione creatrice ri-teorizzata da Clayton Christensen, un mormone che insegna business a Harvard e che, almeno per tutta l’università, raccontava di aver parlato tutte le sere con Dio».
Frequentazione che non gli è servita granché per valutarne gli effetti sui poveri. A proposito dei quali lei riassume mirabilmente La rivolta di Atlante di Ayn Rand, vera bibbia laica degli imprenditori digitali. Cos’ha che non va?
«È un libro in cui uno stronzo di nome John Galt convince tutti i ricchi del mondo a trasferirsi in una valle dove possono essere ricchi insieme. E ti dice anche che qualsiasi cosa tu debba fare per arricchirti è lecita, perché i poveri sono rifiuti che meritano di morire nelle fogne. Ora, con Trump, tutti sono più restii a citarlo ma fino a ieri è stato il livre de chevet da Jobs a Zuckerberg, dal fondatore di Uber a quello di Twitter. C’è bisogno di aggiungere altro?».