PIANETA VASCO – Franco Angeli edizioni
Pianeta Vasco. Nel panorama del rock e della musica pop italiani, Vasco Rossi rappresenta un vero unicum, un rabdomante dei sentimenti, capace di riflettere e intercettare nel tempo gli stati d'animo di milioni di italiani e italiane. Un autentico specchio intergenerazionale e trasversalissimo di un pezzo di antropologia di questa nostra nazione.
Un fenomeno quello del "Komandante" così importante che non poteva certo sfuggire a un altro illustre e famoso modenese, quell'Edmondo Berselli che è stato un brillantissimo narratore dell'Emilia e un conoscitore impareggiabile della cultura popolare e della musica leggera.
In questo volume si trovano raccolti gli articoli e i testi che, in momenti diversi del suo lavoro, Berselli ha dedicato al "rocker maledetto" (e, al tempo stesso, genuino e spontaneo come pochi) di Zocca. Un "ribelle filosofo" che ha parlato a tutto il Paese, ma con le radici ben piantate in Emilia e in una certa fase della storia italiana. Nonché il "poeta" di un momento preciso dell'esistenza di ciascuno - l'adolescenza e la giovinezza - che insegue il desiderio di una vita spericolata (e, quindi, a volte, finisce necessariamente anche per venire frustrata). E che fa sì che il suo pubblico si identifichi con lui con una forza travolgente e fusionale.
Un cantante che ha inventato la comunità prima delle community e dei fandom. E le parole di Berselli, ancora una volta, lo fanno capire con un acume e una profondità più uniche che rare.
VASCO IL MAGNIFICO
Articolo di Edmondo Berselli pubblicato da L’Espresso il 12 luglio 2007 – www.espresso.it
Veniva da Zocca, sull’Appennino modenese, aveva alle spalle studi di ragioneria non proprio convinti e l’università a Bologna presto abbandonata. Rocker, per modo di dire: dentro la sensibilità musicale del Blasco c’erano echi cantautorali, una passione per Lucio Battisti, la sensibilità commerciale del disc jockey, il gusto moderno di Punto Radio, e in fondo a tutto la voglia di fare musica per raccattare pollastrelle. Era il meglio che Boncompagni potesse aspettarsi per divertirsi, con battute finto-comprensive e vero-cattivelle.
foto di vasco rossi di guido harari
D’altronde, come si fa a non divertirsi con il terribile e placido Vasco: perfino quando rispondeva con piccoli movimenti delle labbra agli sfottò del cinico presentatore Boncompagni, in cui si intuiva il suo inevitabile e represso ’vffncl’, c’era nel suo sguardo un aspetto giocoso, quello di uno che si sta giocando la vita e un avvenire, senza troppi scrupoli e senza nessuna illusione, dunque con un divertimento implicito.
Partirono le note di pianoforte introduttive della sua canzone, "Respiri piano senza far rumore...", e qualcosa cambiò, nell’atmosfera in studio: come se ci si rendesse conto che quella canzoncina romantica contenesse qualche piccola verità, l’aura che si dispiega misteriosamente intorno ai pezzi destinati a fare epoca. Il tempo tiranno infierì sull’esecuzione (vabbè, era un playback, ma non importa), e mentre partiva la schitarrata cosmica ed elettrica a metà esecuzione, il regista fece sfumare la musica. Vasco addio. O meglio, arrivederci.
Più tardi fu Pier Vittorio Tondelli, lo scrittore reggiano morto così presto, e così malinconicamente, a sdoganarlo, proprio su ’L’espresso’. Perché descrisse la sua voce "da fumatore", i suoi gesti vagamente schizzati, il suo corpo da proletario, intuendo che dentro e dietro l’aspetto del contadino e del montanaro c’era qualcosa di più di un’apparenza.
Vasco era già destinato a diventare il re dei giubbotti neri, antitesi perfetta del divo dei pianoforti bianchi, il crepuscolare stornellatore Claudio Baglioni. Sarebbe andato a Sanremo, avrebbe litigato con Nantas Salvalaggio, avrebbe accentuato il suo atteggiarsi da bevitore, avrebbe ripetuto ad libitum "capìtto", come fa ancora adesso nel suo lessico che è esattamente identico a quello dei suoi fan. Sarebbe anche finito in una di quelle storiacce da ragazzo precipitato troppo rapidamente nel successo, in cui la coca fa da contrappunto nasale alle notti da sballato, e a un ritmo di vita che è quello di ’Siamo solo noi’, generazione senza santi né eroi, protagonista di peccati prevedibili e di redenzioni sempre precarie. Una vita estrema, ma anche una vita provinciale, e perciò comprensibile.
La vita di uno che è sempre consapevole che il successo in fondo è casuale: poteva andare bene, poteva andare male, è andata benissimo, più che benissimo, è andata alla grandissima.
Vasco infatti è diventato un idolo. Idolo per la vita spericolata, perché va o è andato al massimo, perché ha sfidato la notte e la discoteca, si è perso nei parcheggi fuori da un locale fumando Lucky Strike e guardano le cartacce per terra: perché si è identificato fino in fondo con i suoi ammiratori, con le generazioni che l’hanno amato e che lo amano, che affollano i suoi concerti, e si commuovono e si divertono perché condividono qualcosa (molto) di lui.
Condividono anche la sua parabola. Era magro, capelluto, poetico, trasognato, cattivo. Adesso è grasso, pelato, tollerante. Quello che ha perso in immagine l’ha guadagnato nella passione del pubblico. Perché lo "sbudellato" Vasco, come lo definì Roberto D’Agostino, è riuscito in un’impresa formidabile: cioè a farsi voler bene da tutti, diconsi tutti, gli italiani.
Non è un fenomeno facilmente spiegabile. Nessuno infatti è in grado di spiegare la ragione per cui Vasco Rossi riscuote un successo travolgente e generalissimo. In Svizzera o a Innsbruck, appena fuori dal confine, sarebbe uno sconosciuto. La sua non è musica all’avanguardia, è un suono di mainstream, potente e accattivante ma senza vertici di originalità.
Eppure, grazie anche ad autori e collaboratori come Tullio Ferro (ex chitarrista di tendenza che ha firmato i suoi hit più clamorosi), le sue composizioni sono diventate l’accompagnamento più naturale per l’intera società italiana, senza distinzioni d’età o di classe sociale.
Che cosa c’è allora nelle canzoni di Vasco? C’è la trasgressione controllata, lo scarto consentito, la rivoluzione comportamentale moderata. Non c’è tanta politica, dato che il suo mondo è una realtà sostanzialmente individualistica.
In quanto rocker, ha sempre manifestato simpatie per Marco Pannella, anche in seguito alle campagne antiproibizioniste dei radicali. Ma si tratta di un radicalismo non di destra, almeno nei pronunciamenti ufficiali, che fa da compagno di strada al progressismo implicito dei suoi tifosi sugli spalti e sul prato.
Poi c’è la formidabile energia che si trasmette dal palco, quel muro di suono che non cessa di affascinare il pubblico, la potenza delle chitarre, dato che il rocker sa che la musica va fatta con le sei corde elettriche, e con il pulsare di una batteria percossa con giusta violenza, altro che storie.
Salvo qualche intervallo lirico, in cui come i grandi guitti spreme lacrime con il cinismo dei poetastri. E infine ci sono le sue parole, così semplici e così efficaci: ancora oggi, a metà dei suoi cinquant’anni, Vasco scrive come scrivono gli adolescenti, con le maiuscole e le sottolineature, i punti esclamativi, i puntini di sospensione, come se si trattasse di un diario da mostrare in pubblico.
Con tutto questo, chi può negare l’efficacia degli slogan vascorossiani? "Coca Cola sì, coca casa e chiesa... Con tutte quelle bollicine...". Sembra uno spot pubblicitario, lo stacco perentorio di un messaggio che sottolinea vicende scolastiche e avventure da tribù generazionale, ragazzate pericolose e innocue, sentimento collettivo, ingenuo e mica tanto, tradotto in perfetta formula cantata.
Lo si vede agitarsi sul palco, come di recente a San Siro e all’Olimpico di Roma. E ci si chiede come sia possibile la passione di massa per un tipo così. Poco attraente, viziato, ’brutto’: in una parola, irresistibile. Si capisce: Vasco è una polarità semantica che riassume tutto il suo pubblico, le esistenze dei fan, le loro parole, le loro frustrazioni, consentendo a ognuno dei suoi ammiratori e ascoltatori di identificarsi con lui.
Anzi, ancora meglio: di pensare che il suo successo clamoroso è tanto incomprensibile da non generare invidie, e quindi capace di generare comunità. Vasco vince, convince, trionfa, urla e magari si commuove, perché anche i rocker hanno un’anima, magari di seconda mano, senza instillare frustrazioni nell’indistinto collettivo che si riunisce festosamente intorno a lui. ricco ma tratta la ricchezza con la nonchalance dell’ex povero, consapevole che tutto questo, i soldi, il fuoristrada, la vita comoda, può andarsene com’è venuto.
Al massimo dovrà pensare a come saranno i suoi sessant’anni, se il miracolo della sua leadership morale sulla musica italiana potrà ancora replicarsi. Ma per adesso, a dispetto di tutti gli altri, c’è un solo leader, non vuole comandare nulla, e si chiama Vasco: per sempre.
CABELLO
"Avevo realizzato un servizio in cui fingevo di essere la figlia illegittima di Vasco Rossi". A parlare è Victoria Cabello che, durante il docu-film, dedicato al concerto a San Siro del cantante emiliano, racconta dello scherzo a Vasco quando ancora era un'inviata delle "Iene"
"Ero una matta - spiega la Cabello - riuscii a bloccare le riprese del set di un film in cui c'era proprio lui". Uno scherzo che la rock star italiana, che ha appena concluso il suo tour milanese con 6 sold out a San Siro - prese bene e con ironia. "Alla fine della giornata lo misi a letto - conclude l'ex iena - gli cantai "Una vita spericolata", in versione ninna nanna".
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