LA REGOLA DI MASTANDREA: ''NON SMETTERE MAI DI FUMARE. SI SCATENA UNA CORSA A SMETTERE TUTTO. DI MANGIARE. DI POLTRIRE. L’EFFETTO DOMINO È DEVASTANTE. INGRASSI E QUINDI TI METTI A DIETA. TI LASCI ANDARE E QUINDI FAI GINNASTICA, GINNASTICA PER LA TERZA ETÀ''. IL SUO PRIMO FILM DA REGISTA, 'RIDE', SULLA VITA DOPO LA MORTE DI QUALCUNO CHE ABBIAMO VICINO. ''NON HO PAURA DI MORIRE, MA DI CAMPARE TANTO E MALE''

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Malcom Pagani per Vanity Fair

 

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Sono troppo vecchio per queste stronzate”. Non so in che film lo dicevano, ma da un po’ di tempo a questa parte penso spesso a questa frase. Anche per fare le foto di questo servizio l’inadeguatezza regnava sovrana. Ecco, forse il “sovranismo del disagio” è l’unico che concepisco, il resto, l’altro, lo lascio a chi lo usa per non affrontare le paure di quest’epoca, che sono tante, è vero, ma che credo vadano trattate in modo diverso».

 

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Iniziò a recitare nel 1993: «A giugno» e da allora, sospira: «È passato tanto tempo. Cominciò tutto con un occhio nero, accompagnando Vera Gemma a un provino. Piero Natoli, il regista, mi vide e mi disse: “Non è che ’sto film lo vuoi fa’ pure tu?”. Però il mio primo ciak in assoluto fu davanti a un ospedale: quello la doveva dire lunga. “Che significherà?”, mi chiedevo. Oggi mi rispondo che mi serviva una cura e che quel mestiere mi ha curato. Fare l’attore mi è servito a recuperare le emozioni che nella vita non riuscivo a esprimere, ma da qualche tempo è come se quella medicina non mi servisse più. Per questo, adesso, da regista, ho girato un film che parla della difficoltà a tirare fuori le emozioni».

 

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Valerio sfoglia le pagine dei suoi ultimi mesi nella libreria del quartiere San Lorenzo e mentre racconta rinunce e imprese, demitizza per natura, con l’ironia del disincanto, le prime e le seconde. Ha smesso di fumare: «Non smetta mai. Si scatena una corsa a smettere tutto il resto. Di mangiare. Di poltrire. L’effetto domino è stato devastante. Smetti di fumare. Ingrassi e quindi ti metti a dieta. Ti lasci andare e quindi fai ginnastica, ginnastica per la terza età» e ha girato il primo vero film della sua vita, Ride, anatomia profonda e senza sconti delle sanzioni sociali che determinano il nostro rapporto intimo con le sensazioni più naturali da provare, gioia e dolore su tutte.

 

Una giovane donna perde il compagno in un incidente in fabbrica e, da quando è successo, schiacciata dal peso dell’indignazione degli altri e dell’attenzione mediatica che subisce, non riesce a stare male come si deve. «Gli amici mi dicono “in questo film ci sei tu: ogni volta che c’è un’emozione in arrivo tu scappi fino a quando non arriva una tempesta”. A elaborare impiego tempo anche io, ma quando accade e mi arriva la botta, quella botta non me la dimentico. Sono fatto così e per cambiare ormai è troppo tardi».

 

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Fa una pausa, muove le mani nell’aria, come a afferrare un ricordo: «È successo quest’estate, portavo le mie scatole dalla vecchia casa a quella nuova e osservando una fotografia con mia madre scattata quando ero piccolo mi sono straziato, così, all’improvviso. Come se avessi concretamente capito che da qui alla fine mancano trent’anni e che per quanto tu te la possa raccontare, c’è più storia che futuro e che bisogna godersela ogni minuto».

 

Come mai Carolina, la protagonista di Ride, non riesce a piangere per quello che le è successo?

«Oltre a essere in un’epoca in cui essere felici è complicato, risulta difficilissimo anche viversi il dolore come si deve. Per chiudersi dentro casa e stare male in maniera sana bisogna quasi chiedere il permesso».

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Bisogna chiederlo anche per essere felici?

«Sa cos’è? È che quando ogni giorno qualcuno su Instagram ti sbatte in faccia la sua felicità diventa più difficile annullare i parametri e capire quanto puoi essere davvero felice tu. Vorresti dire “sono contento per te, ma tienila anche un po’ nascosta la tua felicità, non gettarmela addosso con questa violenza”. In rete vedo grandissima solitudine. A volte il dibattito è sano, altre, più spesso, sordo. In un vecchio tweet scrissi: “Quanto me sento solo su Twitter”. Un po’ scherzavo, ma scherzavo solo un po’».

 

La protagonista del suo film non riesce a esprimere il suo grande dolore.

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«Le chiedono “Come stai?”. E lei risponde “Mangio e dormo benissimo”. Non è solo per lo choc o perché si sente allucinata, ma perché quando è tutto cerebrale e pensi a come cercare il dolore a ogni costo, quel dolore non arriva mai. La testa non c’entra un cazzo con le emozioni. Per soffrire devi sentire la pancia, metterti in contatto con la parte più intima di te, lasciarti andare. Solo lì trovi la soluzione: da una cosa a cui non pensi e a cui non sei in grado di dare un nome».

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Chi la osserva, non la ascolta. Chi la osserva, la accusa velatamente di insensibilità.

«Chiunque entri in quella cosa è un testimonial di come è giusto soffrire. Arriva l’antica fidanzata di lui e le dice: “Se fossimo rimasti insieme quando avevamo sedici anni forse lui sarebbe ancora vivo”. E lei pensa: “Quindi stai insinuando sia colpa mia?”. Poi è il turno di chi assicura: “Tu e tuo marito non vi lascerete mai”. E lei riflette: “Grazie al cazzo, è morto”. Infine c’è chi prova a rassicurarla in maniera sinistra: “La morte non ti deve far paura, prova a pensare che la prossima sarai tu”. E lei: “Ma come? Ho trent’anni”. Chiunque la vada a trovare, ammesso e non concesso che queste figure non siano solo frutto della sua immaginazione, mina il terreno. Lei però in aria non salta mai».

 

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Perché?

«Perché la morte che l’ha travolta è più ingiusta della morte stessa. Perdere qualcuno mentre è sul posto di lavoro porta nei giorni immediatamente successivi un’attenzione da parte del resto del mondo che forse condiziona il tuo reale approccio alle sensazioni. Carolina è sotto choc per il fatto di non esserlo. C’era una scena in cui per definire la condizione di straniante normalità in cui si trovava nonostante il lutto, lei si eccitava e prima di abbandonarsi totalmente al piacere della masturbazione, faceva resistenza. Era troppo, non per la scena forte in sé per sé, ma perché quello che già c’era nel film era abbastanza per sottolineare il senso dell’assurda normalità che vive. La rappresentazione della sua normalità già permea tutto il film».

 

Cosa voleva raccontare in Ride?

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«Una famiglia che subisce un trauma e reagisce a una disgrazia assurda. Un personaggio dice “si muore in guerra non al lavoro”. Ecco la guerra però la fa chi resta a fare i conti con tutto quello che una tragedia del genere si porta dietro. Persone alle quali, in 24 ore, a livello interiore succede tantissima roba. Tutti cambiano, tutti fanno un salto.

 

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Dal bambino che al funerale del padre vuole andare con la tuta di una squadra di calcio della Madonna e si lamenta di doversi vestire con quella dell’Atletico Villa Luciana all’adulto, nessuno resta immobile. Come diceva Jünger, la partita a scacchi non finisce mai con la vittoria dei bianchi o dei neri, ma quando tutti i pezzi tornano nella scatola, quando ogni tassello viene collocato nel luogo in cui deve stare, quando ogni cosa è in equilibrio e non ci sono più ombre e omissioni. Bisogna collocare le cose nel posto giusto anche perché la cosa che ci fa ammalare tutti nella vita è proprio questa: la poca chiarezza, il bluff, la menzogna».

 

In Ride, anche se viaggio emotivo della protagonista e successiva catarsi sono interiori, il tema delle morti bianche, come nel suo primo cortometraggio 3.87, è sullo sfondo. Perché è tornato ad affrontarlo a 13 anni di distanza?

«Perché ho capito che se mai continuerò a fare il regista e guardare il mio lavoro da un’angolazione diversa, il mio cinema non potrà non parlare di quanto la società con le sue violenze comunicative e le sue contraddizioni influisca su quelli che siamo, sui nostri sentimenti, sulle nostre frustrazioni consapevoli e inconsapevoli».

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Renato Carpentieri, che nel suo film ha trascorso in fabbrica una vita intera, dice: «Questo è il Paese in cui i figli muoiono e i padri restano soli a chiedersi perché».

«Per chi ha fatto le storiche lotte sindacali nel nostro Paese la fabbrica ha rappresentato sicuramente un luogo di aggregazione, di formazione civile e sociale in cui trascorrere le esistenze. Oggi è un posto impersonale in cui lavori tre anni e poi ti mandano ’affanculo in cinque minuti».

 

La indigna l’attuale situazione?

«L’indignazione è un bel sentimento, ma a me dà l’idea di un sentimento che dura 72 ore e non evolve nell’azione e nel reale cambiamento. La morte in fabbrica si è trasformata in statistica. Un giornale ne scrive per tre giorni e poi basta. La resistenza civile passa anche attraverso altro». 

 

Attraverso che cosa?

«La società civile ha sempre trovato il modo di resistere e lo troverà anche stavolta, indipendentemente dalla rappresentanza politica. Una rappresentanza che nel frattempo potrebbe dire la verità alle persone. A chi ha paura devi dire le cose come stanno: temi di perdere il lavoro? Ti spiego la verità. Il lavoro non c’è e se anche ci fosse, a rubartelo non è l’uomo nero, ma il vicino di casa che ha un’azienda e paga l’uomo nero meno di te, e, scusi il gioco di parole, lo fa in nero». 

marco giallini mastandrea l odore della notte marco giallini mastandrea l odore della notte

 

In Ride l’influenza di Claudio Caligari è chiarissima. Se si guarda la scena dei tre vecchietti intenti a cucinare in una baracca sul mare si pensa subito a lui.

«È stato un riflesso involontario. Se lei invece mi chiede cosa abbia imparato da Claudio, ancora oggi non so rispondere e non saprei farlo neanche se me lo chiedesse lui. Se in Ride c’è qualcosa di Claudio, sta nel non voler utilizzare un mezzo come il cinema come fine a se stesso, ma di usarlo per provare a dire qualcosa».

 

Come faceva Bernardo Bertolucci.

«Quelli come lui o come Ettore Scola non se ne andranno mai davvero. Ci lasciano molti strumenti, moltre tracce, molti sassi di Pollicino per trovare la strada giusta».

 

Sul set di Non essere cattivo, il film postumo di Caligari portato a termine anche grazie al suo decisivo interessamento, aveva detto di aver trovato un’atmosfera magica. È successo anche stavolta?

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«Sotto certi aspetti sì, ma in entrambi i casi avevo grande responsabilità e quindi davvero rilassato non sono stato mai. Su Ride mi sono misurato con la direzione degli attori e ho capito di essere, proprio per la mia natura di attore – attore non per vocazione ma per necessità – molto meno tollerante, libero e tranquillo di come non pretendo di essere quando sono diretto da altri».

 

In che senso?

«Ho rotto molto i coglioni. Non credevo sarei stato un regista del genere. Non mi andava di dire all’attore come doveva declamare la battuta, un atteggiamento che credo sia l’antitesi del rapporto regista-attore, ma nel fornire all’attore gli strumenti e le informazioni necessarie a fargli scattare una motivazione, mi sono accorto che pretendevo che avessero l’immediatezza e la naturalezza di elaborare il suggerimento e di restituirmela subito».

 

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Troppo?

«Sono un attore istintivo e ho dovuto fare i conti con il fatto che non tutti lo siano. Quando ho provato a fare l’attore seguendo i canoni “del mestiere” ho sempre toppato i film che interpretavo, Chiara Martegiani, la protagonista, invece, non è assolutamente un’attrice istintiva, ma una vera interprete. Se le metti un vestito del ’700 la vedi e ci credi. A forza di suggerimenti, povera, l’ho distrutta». 

 

Chiara Martegiani è anche la sua compagna. Cosa l’ha portata a scegliere un azzardo simile?

«La voglia di rischiare. Nella vita di coppia, non a livello professionale. Mi fidavo molto della sua voglia di recitare in questo ruolo. Mettere il rapporto, un rapporto lungo un anno e mezzo, alla prova del set e confrontarmici è stato un gesto, credo, di grande maturità. Era come provare a dire uniamoci davvero, entra nella mia vita, mettiamoci insieme come facevamo a 16 anni».

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L’ha scelta subito?

«No. Per un tempo lunghissimo non mi è neanche passato per la testa. Volevo un’attrice più grande e forse qualche mezza promessa qui e lì l’avevo anche spesa. Poi una sera, una persona che sapeva del progetto mi ha detto: “Ma a Chiara hai mai pensato?”. Mi ha liberato. Ci pensavo inconsciamente da un mese e mezzo. “Sono contento che me lo domandi”, gli ho detto. Poi l’ho salutato e mi sono attaccato al telefono. Ne ho discusso con Simone Isola, il produttore, e poi con chi si occupava del casting».

 

A quel punto?

«Li informo, li ascolto e alla fine decido. Una sera invito a cena Chiara e all’appuntamento – sono fatto così – sembrava quasi mi fosse morto un parente, le dico: “Ti devo dire una cosa terribile, ma anche bella”. Che voglio dire, a posteriori, che cazzo di modo è di dare le notizie?». (Ride).

 

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Il dialogo tra voi?

«Le dico “potresti fare la parte, te la senti?”, e mentre le parlo, lei si commuove e a me viene da vomitare. Una bella scena. Digiuniamo e paghiamo il conto senza aver mangiato. Ci saremmo dovuti far preparare una doggy bag».

 

Come è sopravvissuto ai suoi esordi?

«Ho saputo ascoltare e ho avuto culo, anche. Ho fatto i miei errori e non li ho pagati troppo, non tutti almeno. Per me fare l’attore è una missione, un bisogno, una necessità. Fino a 40 anni sono stato una persona che non poteva far altro che un mestiere in cui si riproducevano le emozioni. Le dovevo incarnare per finta e però renderle vere per gli altri anche perché nella vita non riuscivo a tirarle fuori.

 

Mi facevo una nuotatina dentro le mie emozioni, emozioni che per difesa e per storia personale avevo messo dietro a veri e propri portoni di acciaio, e poi passavo al film successivo. Poi la vita mi ha restituito l’occasione di mettermi in gioco e superarli definitivamente e ho visto il lavoro dell’attore in un altro modo. È stato in quel momento che mi sono detto “voglio fare questo film”».

MASTANDREA IN COSE DELL ALTRO MONDO MASTANDREA IN COSE DELL ALTRO MONDO

 

Emulerà Valeria Golino?

«Valeria è straordinaria e ha un’intelligenza meravigliosa. Diciamo che la prospettiva non mi spaventa. Ho fatto l’attore per 25 anni con pudore, un po’ perché non me so mai saputo vende bene e un po’ perché ho tenuto sempre il profilo basso. Girerò un’altra storia, però, solo se avrò qualcosa da raccontare. Non farei mai per forza un film da regista, come invece, da attore, ogni tanto mi è capitato».

 

Erano film sbagliati?

«Come lo sono tutti quelli in cui metti il mestiere davanti al cuore o nei quali l’approccio pedagogico che vuole suggerire il messaggio si mangia tutto il resto».

 

Quanto c’è di personale in Ride?

«Moltissimo. Daniele Gaglianone, amico e regista, sostiene che Ride sia un omaggio a mia madre, con la quale sono cresciuto. Ma il film in realtà è dedicato a chi resta e alla fine, forse invece il film è dedicato proprio a me. Anche io, davanti a un dolore e a una perdita, sono restato».

 

VALERIO MASTANDREA NEI PANNI DI LUIGI CALABRESI VALERIO MASTANDREA NEI PANNI DI LUIGI CALABRESI

Sua madre è stata importante?

«Anche per il cinema. Ci va da sempre. I primi film me li ha fatti vedere lei, nelle arene estive. Opere grandiose, terribili e brutali come Soldato blu, Corvo Rosso o L’albero degli zoccoli che a 7 anni magari non era il caso di vedere. Quando lo dissi a Ermanno Olmi, lui iniziò a gridare: “Perché? Percheeeé?”. Siamo venuti fuori pieni de buchi infatti, ma meglio a pois che a strisce verticali».

 

In cosa crede Valerio Mastandrea?

«Credevo nella raccolta differenziata, ma mi hanno detto che era un inganno, una cazzata pure quella. (Ride). Non cedo al fascino del 4-4-2 con cui è più facile pensare di vincere ma credo ancora nel 4-3-3 di Zeman perché non esiste miglior difesa dell’attacco e non bisogna mai aspettare l’occasione o il momento giusto, ma bensì provocarli».

 

Non crederà solo nel 4-3-3 di Zeman.

«No, credo e molto, anche in quello che faccio».

 

Lei diceva: «Bisogna rimanere bestie senza perdere l’istinto». In questi anni lo ha perso o lo ha affinato?

«Comanda ancora: chi nasce tondo non può morire quadrato».

 

E lei si sente tondo o quadro?

VALERIO MASTANDREA E CLAUDIA GERINI NE IL COMANDANTE E LA CICOGNA VALERIO MASTANDREA E CLAUDIA GERINI NE IL COMANDANTE E LA CICOGNA

«L’importante è non morire parallelepipedi. La Trigonometria è stata l’unica matematica che abbia capito. Il compito della maturità, per spiegarle l’abisso, lo consegnai in bianco. Me lo passarono interamente, ma mi era così oscura la materia che non riuscii neanche a copiarlo».

 

Di cosa ha paura?

«Sicuramente non di morire. Ma di campare tanto e male». 

 

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