Alberto Mattioli per "la Stampa"
«Di sì felice innesto / Serbiam memoria eterna», canta Figaro mandando a cena il pubblico dopo l'happy end. E stavolta l'«innesto» per la Scala è stato felice davvero. Ieri, primo giorno con i teatri a capienza piena, cento per cento dei posti vendibili e occupabili dopo mesi a cinquanta, coincideva con una recita del «Barbiere di Siviglia» di Rossini, titolo popolare, titolo amato, titolo vendibilissimo (fortunati scherzi del cartellone, di solito il lunedì è giorno di riposo).
Così, quando alle 20 precise Riccardo Chailly ha alzato la bacchetta, si è rivista la Scala come dev' essere: con il suo pubblico. E il primo applauso, dopo la Sinfonia, è stato certo per Rossini e per Chailly e per l'Orchestra, ma anche per la gioia di essere tornati nel posto che amiamo di più al mondo senza doverci intristire per quelle poltrone vuote, esteticamente desolanti e emotivamente deprimenti. Strapieno, per la verità, il teatro non era. Il decreto del cento per cento è stato pubblicato sulla «Gazzetta ufficiale» venerdì sera, la lieta novella annunciata dalla Scala sabato, la biglietteria di domenica è chiusa quindi, Internet a parte, non c'è stato troppo tempo per sbigliettare.
Però il pubblico ha risposto, smentendo i soliti profeti di sventura che annunciavano che il Covid avrebbe ammazzato anche i teatri. Dando i numeri: da sabato, la Scala ha venduto 2.527 biglietti dei quali 1.250 per questa settimana (in cartellone ci sono, oltre al «Barbiere», la novità di Fabio Vacchi «Madina», mentre domani debutta un altro Rossini, «Il turco in Italia») e più di trecento per ieri sera. Morale: gallerie gremite, palchi pieni, platea non esaurita.
Qui pesa anche il fatto che, con una poltrona delle file lusso che costa 250 euro, l'opera in generale e alla Scala in particolare non è esattamente a buon mercato, e figuriamoci se ci vai in compagnia. Ma insomma, ci sarà ancora qualcuno che ha paura a non distanziarsi e chi non sopporta la mascherina, tuttora obbligatoria insieme all'ostensione del Green Pass e al controllo della temperatura, ma la voglia di tornare a teatro c'è, e ancora di più di tornarci insieme.
Tira un sospiro di sollievo Dominique Meyer, il sovrintendente francese: «No, non scriva che sono contento: sono felice. Abbiamo lavorato tanto, con l'Agis, l'Anfols (l'associazione delle fondazioni lirico-sinfoniche, ndr) e il ministro Franceschini. Le vendite vanno bene, con gli abbonamenti per la prossima stagione siamo appena dell'uno per cento sotto gli obiettivi, e manca ancora un mese e mezzo alla Prima». Si poteva magari aumentarla prima, la capienza? «Forse sì. A Salisburgo quest' estate hanno dimostrato che con il Green Pass il teatro è un posto sicuro. Ma va bene così, è ora di guardare avanti».
Intanto il foyer si riempie, anche di stranieri (finalmente) che si riconoscono subito perché per venire alla Scala si vestono sempre un po' troppo bene. Però ieri era soprattutto la festa degli habitué. Prendete Flavio, fisso in loggione dal 1976, e quasi ogni sera: «Ormai in Europa eravamo rimasti solo noi, con tutti quei posti vuoti, una tristezza. Adesso finalmente si riparte. Ho già comprato tutti gli spettacoli che mi mancavano».
Oppure Marco Vizzardelli, alla Scala praticamente dai tempi di Verdi, che diventa addirittura lirico: «La sala piena è una gioia per gli occhi e per il cuore di cui dobbiamo essere grati a chi, con vaccino e Pass, ci ha permesso di tornare. Il teatro è scambio di energie fra artisti e pubblico. È bellissimo ritrovarci qui, loro e noi insieme». E poi c'è l'indotto. Pier Galli, titolare del ristorante «Galleria» appunto lì, classico dopoteatro con le pareti tappezzate di locandine e di autografi dei divi: «Per noi la Scala piena è importantissima, anzi fondamentale: un bel pezzo di fatturato. Abbiamo sofferto moltissimo. Da una quindicina di giorni, dalla settimana della moda, siamo tornati quasi alla normalità. Milano rinasce. Finalmente».
Largo al factotum, intanto: il giovin baritono Mattia Olivieri, nuovo beniamino della Scala, bello e bravo, si mette subito in tasca il pubblico, e da quel momento la recita è in discesa, fra applausi e risate. Noialtri fanatici, a rivedere il nostro teatro pieno, restituito finalmente alla sua identità di rito collettivo e festa comunitaria, uniti dalla stessa insensata ma irrinunciabile passione, ci commuoviamo anche un po'. Come dice Silvia Barigazzi, continuatrice della monumentale storia del teatro scritta da suo padre Giuseppe («La Scala racconta»), «ci eravamo scordati quanto è bella la normalità».