Marco Giusti per Dagospia
l isola degli idealisti di elisabetta sgarbi
Cinematograficamente parlando, abbiamo conosciuto il mondo e i gialli di Giorgio Scerbanenco nel 1969, cioè l’anno che è morto, grazie ai film che gli ha dedicato Fernando Di Leo, a cominciare da “I ragazzi del massacro”, “Milano calibro 9”, “La mala ordina” e a due film meno noti, ma che vedemmo con attenzione, l’ottimo “Il caso Venere Privata” di Yves Boisset con Bruno Cremer e una giovane e scostumata Raffaella Carrà e il più realistico “La morte risale a ieri sera” di Duccio Tessari.
Per quanto cerchi di ricordare, però, poco e nulla hanno a che vedere quei film e i loro personaggi con “L’isola degli idealisti”, primo film di fiction diretto da Elisabetta Sgarbi, che lo ha scritto assieme a Eugenio Lio, tratto da un romanzo inedito di Scerbanenco che la stessa Sgarbi ha da poco riportato alla luce con La nave di Teseo. O forse sì.
Ma, certo, seguendo la messa in scena/non messa in scena della Sgarbi, cioè una decina di attori che si muovono recitando il loro testo come se facessero una lettura in una villa del ferrarese piena di opera della collezione Sgarbi (senza chiamare Report) facendo finta di essere su un’isola, tutto questo non viene fuori. Forse la regista, ma anche produttrice e sceneggiatrice, pensava a un tipo di cinema minimalista alla Ozon. Così, però, sembra più vicina a uno di quei film sperimentali della Rai degli anni ’70 dove regnava la noia e la presenza degli attori aiutava fino a un certo punto.
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In questo caso assistiamo a una serie di apparizioni eccellenti, Renato Carpentieri, che fa il capo famiglia, Michela Cescon e Tommaso Ragno, che fanno i figli, Elena Radonicich e Renato De Simone che fanno i ladri che bussano alla porta della villa e vengono accolti dalla famiglia.
Mettiamoci anche Antonio Rezza. Mettiamoci anche Chiara Caselli come cameriera, che almeno ha agitato le acque del metoo all’italiana con l’intervista al Corriere della Sera dove ha ricordato quanto fosse stato molesto con lei Francesco Nuti in “Occhiopinocchio”.
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Lo sapevamo tutti, mi sono ricordato proprio leggendo l’intervista, ma la cosa più brutta è che non ci facevamo caso. Si diceva anzi che Nuti aveva perso la testa per la Caselli e questo aveva fatto scoppiare la lavorazione del film. Ai registi come Nuti, allora, era permesso tutto.
Devo dire, tornando al film della Sgarbi, che qui non solo non c’è nessuna molestia riguardo gli attori, ma neanche alcuna indicazione su come muoversi e cosa fare. Eppure ha girato così tanti documentari, di noia abissale è vero. Eppure ha visto sicuramente del buon cinema con tutti gli incontri che si fanno alla Milanesiana. Possibile che non abbia imparato nulla?
E’ vero che c’è una grande ambizione in quello che fa. Non vuole fare un cinema “brutto” alla Pupi Avati. Pensa di fare un cinema da grande festival internazionale. E, comunque, Paola Malanga, che l’ha messa addirittura in concorso, c’è cascata, quando né Alberto Barbera a Venezia né Antonio Monda a Roma ci sono mai cascati.
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Magari Paola Malanga ci ha visto qualcosa che io non ho visto. Non mi sono concentrato abbastanza, ma, purtroppo, questo film è del tutto inerte. Magari troppo sofisticato. Magari non l’abbiamo capito. Ma se mi chiedete la storia, non l’ho capita. E il pubblico di critici che l’ha visto assieme a me era allibito. La verità è che questo non è cinema.
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