Marco Giusti per “Dagospia”
Con Notti magiche di Paolo Virzì la Festa del Cinema di Roma arriva alla sua conclusione. Ah! La Roma anni ’90 dei radical chic che fanno o vogliono fare, ma soprattutto scrivere cinema. Gillo, Ettore, Furio, Leo, la Cau… Tutti da Otello il mercoledì. E lì che i giovani sceneggiatori potevano conoscere i loro eroi. Anche se alcuni, come Dino Risi, avevano smesso di andarci perché facevano le scommesse su chi sarebbe stato il prossimo a lasciare per sempre la compagnia.
Notti magiche, il nuovo film di Paolo Virzì, che lo ha scritto assieme a Francesca Archibugi e a Francesco Piccolo, malgrado il titolo, che è poi quello della canzone di Gianna Nannini e Eugenio Bennato, non parla affatto di calcio e di Italia 90, parla della gente di cinema, anzi di quella gente di cinema lì, circolo ristretto di intellettuali e sceneggiatori, agenti, produttori, registi, tutti o quasi comunisti che si muovevano tra Prati e Parioli.
L’aspetto più riuscito e divertente di Notti magiche è proprio la raccolta di figurine che lo spettatore cinéfilo deve riconoscere. Ecco Ennio De Concini, lo fa Paolo Bonacelli, con la sua squadra di “negri” chini a scrivere sceneggiature su sceneggiature. Me lo raccontò anche Vincenzo Cerami. Preciso. Ecco Furio Scarpelli, qui Robert Herlitzka, che dispensa battute e massime storiche, ma nessuno può parlare alla sua allieva prediletta. Magari un giorno scriverà Mignon è partita.
Giovanna Cau la troviamo davvero identica. Emmanuele Salce fa il presenzialista che non si sa bene cosa faccia e si imbuca ovunque. Ancora… Avete riconosciuto il il produttore cialtrone Leandro Saponaro interpretato da Giancarlo Giannini, volgarissimo, si è mosso tra commedia sexy, poliziotteschi e film d’autore, ora sta in crisi e sogna un grande ritorno. Per giunta ha lasciato la moglie, Simona Marchini, e si è messo con una svampitissima ragazza coccodé, interpretata da Marina Rocco.
Un mischione di tanti produttori romani che ben conosciamo. Proprio all’inizio degli anni ’90 a Roma cenai con la moglie di uno di questi produttori tradita proprio da una coccodé. Chissà… Ma Fosco, il regista bolognese che prova a parlare romano e è ridotto in miseria interpretato da Andrea Roncato chi sarà? E il misterioso Pontani, grande regista che non parla più, interpretato da Ferruccio Soleri, non può essere Antonioni, vero? O forse sì… Virzì-Archibugi-Piccolo giocano con il puzzle dei ricordi di una generazione cresciuta in questa Roma già un po’ degradata, magari vissuta in tempi leggermente diversi, mischiando le storie per non renderle troppo esplicite o per potersi permettere nell’anonimato certi lussi.
Poi prendono tre alter ego fittizi, tre giovani sceneggiatori candidati al Premio Solinas, un livornese, Luciano Ambrogi, un siciliano, Mauro La Mantia, e una romana ultrasnob e piena d’ansia, Irene Vetere, e li chiudono dentro questo contesto malato e affascinante, mostrando però che negli anni ’90 sono ancora ben vivi Mario Monicelli, Federico Fellini, Gillo Pontecorvo, ma anche Bettino Craxi e Gianni de Michelis ancora balla in discoteca.
Malgrado un grande inizio rutilante con la Ornella Muti di oggi nei panni coraggiosi di una simil-Ornella Muti di ieri che durante una festa si alza la gonna e si mostra senza mutande al giovane sceneggiatore livornese. Ah, la topa! E poco prima lo abbiamo visto scrivere mentre Regina Orioli si fa leccare da un’altra ragazza. Ah, la topa! Malgrado la prima grande scena dal simil-Otello, qui è Checco il carrettiere, con tutto il mondo degli sceneggiatori in gran spolvero, insomma non tutto funziona nel film. Non so. Troppo materiale, troppo divertimento. E certi personaggi, pur divertenti, sembrano far parte di un altro tipo di cinema, più alla Vanzina, diciamo, che alla Virzì. E magari sbaglio io a ragionare in termini di radical chicchismo, perché poi le cose che fanno più ridere sono proprio quelle più simil –Vanzina, come il rozzo factotum del produttore, interpretato da certo, magnifico, Eugenio Marinelli, o la coccodé di Marina Rocco.
E poi, c’era davvero tutta questa energia nel 1990? Chissà, stavo facendo Blob a quel tempo e Roma e i radical chic li conoscevo benissimo. Ma, dopo essermi un po’ infastidito per quel che poteva essere il film, e non sempre lo è, confesso di essermi ricreduto proprio grazie alla confusione tra cinema alto e cinema basso. Cioè VirzìArchibugiPiccolo, proprio trattando il mondo “alto” degli sceneggiatori eccellenti, i De Concini, i De Bernardi-Benvuti, gli Scarpelli, finiscono per funzionare proprio nei loro aspetti più vistosamente “basso”, o stracult, la leccata di topo, la scopata con l’attore francese intellettualissimo, la festa nella villa all’Olgiata di tante commedie sexy e luogo di un celebre delitto, la figura di Roncato che sembra ancora un personaggio di Fantozzi, le ammiccatine al cinema di Galliano Juso.
In bilico sul bordo, lievissimo, che dovrebbe dividere cinema alto da cinema basso, e che geni come Dino Risi e Mario Monicelli ben conoscevano e, tranquillamente, attraversavano di tanto in tanto, VirzìArchibugiPiccoli finiscono per cadere nel gioco del cinema basso, ma è poi è l’unico a dar vitalità a tutta la storia e sapore ai personaggi. Leccate e pompini compresi. Molto più delle trovate teoriche sullo scrivere da sceneggiatori. Detto questo la ricostruzione d’epoca è perfetta, la fotografia di Vladan Radovic e la musica di Carlo Virzì pure. Ma capisco che il film possa imbarazzare non poco un vecchio critico e interessare pochissimo i più giovani.
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