Marco Giusti per Dagospia
Ammetto che ci vuole un bel coraggio… Non tanto a recitare in francese per tutto il film, cosa che Giulio Base devo dire fa egregiamente e ditemi un altro attore italiano, a parte Stefano Accorsi, in grado di fare altrettanto. Non tanto a confrontarsi con due mostri intoccabili della letteratura e del cinema, Marcel Proust e Luchino Visconti, visto che i due protagonisti di questo curioso “A la recherche”, diretto e interpretato da Giulio Base assieme a Anne Parillaud, si inventano sceneggiatori di una versione cinematografica del capolavoro di Proust da presentare a un Visconti già vecchio e malato che già aveva accantonato il progetto.
Quanto a inserire in tutto questo, che già naviga su vette stracultistiche altissime, ma il film alla fine è molto meno stracult del previsto, un eterno dibattito-lamento del cinematografaro di destra o non-comunista o non-politicizzato che si sente emarginato dalla eterna solita lobby dei cinematografari di, anzi de, sinistra. Eppure, e qui sta, cucù, la sorpresa, se ci si pensa bene, è molto più interessante puntare su questo eterno ritornello, che sentiamo da decenni da parte di chi si sente emarginato dalla cultura di sinistra pre-Genny il Fenomeno, pre-Avati, pre-Pino Insegno, pre-Buttafuoco, che non sulla storia in sé, ideata e scritta dallo stesso Base con l’attore Paolo Fosso, che forse sarebbe è un po’ azzardata e storicamente poco credibile (nessuna data torna, almeno a sentire i critici dell’antepirma).
Perché così, con l’attrice non più giovane un tempo amata da Luchino, che per recuperare il rapporto “affitta” l’unico sceneggiatore italiano che sappia parlare francese, cioè Giulio Base/Pietro, malgrado abbia a suo carico un passato di filmetti di genere, un Franco e Ciccio (viene citato l’inesistente “Franco e Ciccio e il pirata Barbariccia”), uno spaghetti western, “Quattro pupe per il Gringo”, e lo spinge a scrivere addirittura il copione di “A la recherche” (mica cazzi…) sulla Lettera 22, vengono fuori, o almeno Base cerca di far venire fuori, tutte le contraddizioni di chi fa cinema in questo paese puntando all’alto ma accontentandosi del basso.
Un po’ come ha fatto lo stesso Base nella sua lunga carriera, alternandosi tra una sceneggiatura per Pablo e Pedro, la regia di “Doc West” e primi lavori considerati più interessanti, “Crack”, “Poliziotti”. Ora. Se non funzionano proprio i momenti di arrapamento fra i due, lei che si alza la gonna (Dio mio, no!), lui che cerca di farsela (ma perché?), arriviamo a qualcosa di più significativo e reale quando Base si apre alla lagna del regista emarginato perché considerato non di sinistra, anche se si scorda che ha girato ben 28 film (vedi un po’…), serie tv importanti, e che Genny e Sgarbi e non so chi altro gli hanno affidato il glorioso Torino Film Festival, luogo di solida militanza di sinistra, dall’anno prossimo.
Ma, almeno, sputa il rospo che molti registi italiani tengono in gola da anni, anzi decenni. Cioè che non si sentono amati dal mondo radical chic romano, dai Visconti e Suso Cecchi D’Amico di oggi. Cosa, del resto, verissima. Perché Giulio Base non è considerato, da quel mondo, all’altezza non dico di un Martone-Sorrentino-Garrone, ma neanche di un Roberto Andò. E allora, ma solo allora, in un gioco un po’ autobiografico e narcisistico, ma ci sta, il film si illumina di qualcosa che magari ci interessa di più della sceneggiatura proustiana che, senza fare una copia, appena finita di scrivere, viene inviata brevi manu al poro Luchino.
Certo, in un film di Franco e Ciccio, magari diretto da quel genio di Nando Cicero, non sarebbe mancata la scena comica successiva. Quella cioè con Nino Terzo camuffato da Luchino che vede il copione di Base e Parillaud, guarda un po’ in macchina e spiega al pubblico cosa farne. Ma non vorrei essere frainteso. Mi sta più che bene lo sfogo dello sceneggiatore o regista emarginato dalla critica e dal cinema radical chic romano. E ancor meglio il recupero del cinema di genere basso contro quello alto.
Ma, visto che sono strade da me molto battute, se negli anni ’70, da critico militante, amavi Franco e Ciccio e il loro cinema sporco non potevi davvero sognare di scrivere per Luchino Visconti. Poi però scopri lo straordinario caso di Ugo Santalucia, proprietario di sale baresi, lo Splendor, il Kursaal, che dopo aver fatto i soldi col cinema popolare, decise di produrre i film di Franco e Ciccio diretti da Fulci, ma nel cuore aveva solo il sogno di produrre un capolavoro del suo idolo, Luchino Visconti. E mise tutti i suoi averi, sale comprese, nella realizzazione del “Ludwig”. E, ovviamente, perse tutto. Ma non se ne lamentò mai.
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