Matteo Persivale per corriere.it
È abbastanza bizzarro leggere, sulla homepage dello stesso giornale, il New York Times, nello stesso giorno oggi, l’articolo sulla condanna a 22 anni di reclusione per il poliziotto che uccise George Floyd accanto al commento sulla piaga sociale del «lookism», la discriminazione ai danni dei brutti.
Perché da una parte ci sono voluti 13 mesi per arrivare al verdetto: ebbene sì, stare per nove minuti inginocchiato su trachea e carotide di un uomo ammanettato che chiede pietà, e restarci anche quando non respira più e non parla più e il suo cuore ha smesso di battere, è omicidio.
Invece il verdetto è immediato se si tratta di «lookism», «aspettismo», una delle poche branche della discriminazione sulle quali manca al momento una mobilitazione via social media.
Brooks illustra alcuni studi secondo i quali le persone di bell’aspetto hanno maggiori probabilità di essere chiamate a un colloquio di lavoro, più probabilità di essere assunte dopo il colloquio, più probabilità di essere promosse rispetto a individui meno attraenti.
È più probabile, secondo altri studi citati da Brooks, che ricevano prestiti, e più probabile che ricevano tassi di interesse più bassi su questi prestiti.
Certo chi cinicamente andasse a cercare su Google le foto dei ceo delle aziende di Fortune 500 non vedrebbe necessariamente una rassegna di divi del cinema e modelle, l’uomo più ricco del mondo — Jeff Bezos — non è mai stato scambiato per Jude Law, l’importante però è sottolineare che contro il «lookismo» non c’è al momento rimedio legale, al contrario di quel che accade per quasi tutte le altre forme di discriminazione.
«Gli effetti discriminatori del lookismo sono pervasivi — sostiene Brooks —. Una persona poco attraente perde quasi un quarto di milione di dollari di guadagni nel corso della vita rispetto a una attraente».
«Una società che celebra la bellezza in modo così ossessivo», scrive, «è destinata a essere un contesto sociale in cui chi è meno bello viene sminuito: l’unica soluzione è quella di cambiare norme e pratiche. Un esempio positivo arriva, bizzarramente, da Victoria’s Secret, che ha sostituito i suoi «angeli» con sette donne con caratteristiche fisiche le più diverse. E se è Victoria’s Secret a rappresentare la punta avanzata della lotta contro il lookism, significa che tutti noi abbiamo parecchio lavoro ancora da fare».
È, ovviamente, insensato prima ancora che ingiusto sostenere che un piacevole aspetto fisico (a giudizio di chi, peraltro? Spesso la bellezza è soggettiva) sia indicativo di altre caratteristiche — le persone razionali sanno che i belli non sono più intelligenti, non sono più buoni, eccetera. Ma legiferare in materia diventerebbe complicato: e vista la fatica che fanno i tribunali a intervenire quando si tratta di discriminazioni palesi — razza, genere, orientamento sessuale, etc — per non parlare delle difficoltà dei legislatori (vedi il percorso a ostacoli del ddl Zan), pare avventuroso immaginare un futuro nel quale una persona di aspetto «normale» – drammaticamente, lo siamo quasi tutti, più o meno: chi ha l’aspetto di Jude Law e Monica Bellucci ha semplicemente vinto al momento del concepimento una lotteria del Dna nella quale le probabilità per tutti sono minime — sarà in grado di fare causa per le difficoltà derivanti dal proprio aspetto.
Andy Warhol — che non era bellissimo ma era un genio — diceva che in futuro saremo tutti famosi per 15 minuti. Ma prevedere che saremo tutti belli per 15 minuti sarebbe stato troppo anche per lui.