Gianmaria Tammaro per Dagospia
A lui probabilmente non interesserà perché ha imparato a farci il callo con certe considerazioni e certi pregiudizi. Ma è vero che se “Untraditional” non fosse stata una serie di/con Fabio Volo, ora probabilmente tutti ne staremmo parlando. Perché è bella (non bellissima, attenzione) e perché cavalca un trend, un’idea, che negli Stati Uniti è sempre andata molto bene: raccontare la propria vita, modificandola, fantasticando, romanzandola anche un po’, in video. Un po’ come ha fatto Louis CK con “Louie” o Larry David in “Curb your enthusiasm”.
C’è Fabio Volo che fa Fabio Volo, che gira per Milano, che ha un’intuizione – pensa lui – geniale, che vuole fare la sua serie (le serie, dopotutto, sono la moda del momento: tutti le fanno, tutti ci puntano, quindi perché no). Va da agenti, produttori, artisti, creativi. E intanto deve vivere la sua vita: con la sua compagna (interpretata dalla sua vera compagna, Johanna Hauksdottir), con i suoi problemi e con la precarietà di un mestiere (l’attore? Il signore della tv? Della radio?) che non ha niente, davvero niente, di sicuro.
Lo stile di ripresa, tanta camera in spalla e primi piani, rende tutto il più dinamico e “vero” possibile. Non è un documentario, ma l’intenzione è quella di trascinare lo spettatore in un racconto che sia, ecco, credibile e coerente. E in parte, va detto, succede. Tra la prima e la seconda stagione – partita dal 1° aprile su Nove, alle 23:30, e disponibile sulla piattaforma dplay.com – ci sono stati dei cambiamenti. Fabio Volo è stato lasciato (dopo aver tradito), ha cominciato a lavorare alla sua serie, è partito, e vuole ricominciare da capo. Memorabile è stato il cameo di Carlo Freccero, che ha dimostrato di sapersi prendere in giro (e di avere anche un minimo di onestà).
Da Milano, la storia si è spostata a New York, dove Fabio vuole provare a riconquistare Johanna. La cosa che funziona di più, in “Untraditional”, è l’equilibrio che è stato trovato tra “scrittura” e “improvvisazione”; cioè, tra la fermezza del copione e la spontaneità di chi recita una cosa per la prima volta. In alcuni punti, c’è un rallentamento (soprattutto quando una battuta, detta da “esordienti”, non è detta proprio bene, o non risulta proprio naturalissima).
Ma c’è una linearità, una forza, una scintilla che riesce a coinvolgere lo spettatore. Un po’, ecco, perché vuoi sapere dettagli della vita di Volo (e non si capisce quasi mai cosa sia veramente successo e cosa, invece, faccia solo parte del gioco della finzione). E un po’, anche, perché vuoi vederlo soffrire, sbagliare, ricominciare e soffrire di nuovo.
Una cosa del genere, una serie quasi autobiografica, dove i protagonisti interpretano sé stessi, era già stata fatta in Italia (esempio più importante, forse, sono i Vianello: la loro situation comedy, al limite dell’assurdo, ha fatto la storia del piccolo schermo). “Untraditional”, però, è molto più filo-americana di quello che potrebbe sembrare: i riferimenti ci sono, si riconoscono; Volo non fa nemmeno finta d’aver scoperto l’acqua calda; lo sa, e abbraccia consapevolmente tutti i possibili accostamenti.
L’intenzione è quella di creare una realtà alternativa, di raccontarla sinceramente, mettendosi a nudo (a volte per davvero), e di giocare sulla chimica degli elementi di comicità e di drammaticità. Ridere, ridere sempre. Prendersi (e prendere, certo) per il culo. Venti minuti (e poco più) ad episodio.
Davvero, “Untraditional” meriterebbe – ora che ce n’è ancora la possibilità, prima che sia troppo tardi – d’essere rivalutata. In primis per l’autoironia di cui Volo fa sfoggio, e poi pure per l’idea, per la voglia di metterla in scena, per essere stato il primo, negli anni recenti, post-esplosione piccolo schermo, a voler provare a fare qualcosa di diverso, di nuovo. E in Italia, va detto, chi ci prova viene sempre emarginato. Paese di santi, bigotti e culi pesanti.
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