Testo di Riccardo Muti per “la Stampa”
Una cattiva tradizione esecutiva investe tutto il melodramma italiano. Mi ci sono scontrato fin dal principio della mia carriera, al Maggio Musicale Fiorentino, quando ho affrontato per la prima volta I masnadieri e I puritani in cui diverse pagine, nelle partiture possedute dal teatro, erano tenute insieme da graffette arrugginite. Segno che quelle parti spillate era consuetudine tagliarle e che nessuno, da decenni, aveva avuto la curiosità di sfogliarle per rendersi conto della musica che contenevano.
Constatavo poi che, soprattutto nel primo Verdi (e non concordo affatto con chi pensa che il primo Verdi sia un musicista rustico, al lambrusco), si era soliti aggiungere note, sostare sugli acuti, tradire le dinamiche, consentire ai cantanti silenzi improvvisi che facessero da trampolino di lancio a berci circensi propizi a eccitare gli istinti ferini del pubblico. Tutti tradimenti della volontà d' autore, contro cui già Verdi si imbestialiva. Via via questi usi si sono sclerotizzati nella cosiddetta «tradizione», che in realtà altro non è che un insulto al disegno drammaturgico del compositore.
Come, nel Trovatore, la «Pira» spostata mezzo tono o un tono sotto, il che infrange la consecutio armonica della scena. O Rigoletto, la partitura più massacrata dall' aggiunta di corone e acuti insensati, tanto più censurabili in quanto trasgrediscono la volontà verdiana di sentire quest' opera eseguita d' un fiato, senza fermate.
In Aida si assiste a un' altra forma di tradimento, al fatto di considerarla un grand-opéra invece che un' opera da camera. Abusi maggiori sono stati evitati perché quando nacque era stata già emanata, anche grazie a Verdi, la legge che porterà alla costituzione della Società Italiana degli Autori. Verdi vigilò affinché non si ripetessero stramberie come quella testimoniata da una locandina de La Scala da me reperita: un Trovatore privo del terzo atto, con coreografie e fanfare inframmezzate agli atti rimanenti. Ad Aida questo non è successo.
Però accade che, equivocando la funzione della scena del trionfo nell' economia globale del dramma, questa partitura venga letta tutta come un' operona senza sfumature e ci si disinteressi delle finezze d' orchestrazione, degli innumerevoli pianissimi, delle sonorità spesso lunari, dei rapporti psicologici tra i protagonisti.
Ne aveva esattamente compresa la natura Giorgio Strehler, con cui progettavo di metterla in scena alla Scala se non fosse venuto a mancare: a lui, che in questo concordava con le idee di Eduardo De Filippo, non interessava mostrare un trionfo pompier, dato che già la musica lo fa.
Eppure il carattere del trionfo tende a improntare l' intera partitura, tanto nell' apparato scenografico kolossal quanto nella lettura musicale.
Perfino un' orchestra superba come i Wiener spesso tende a pareggiare le dinamiche, ignorando piani e pianissimi che molti direttori non curano. Incontrandoli nel 2017 al Festival Salisburgo per una nuova produzione da me diretta, ho spolverato la patina di routine che su Aida si era depositata, tanto che loro stessi si sono meravigliati di scoprirvi colori inaspettati.
(Testo tratto da "La mia Aida", un colloquio di Riccardo Muti con Gregorio Moppi, pubblicato in Studi verdiani 28, la rivista dell' Istituto Nazionale di Studi verdiani che verrà presentata domani alla Casa della Musica di Parma)
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