Giuseppe Scaraffia per ''Il Messaggero''
Il nuovo libro di Walter Siti, “Bruciare tutto”, Rizzoli, è la strana storia di un prete pedofilo che si dà fuoco per il rimorso di non avere abusato di un bambino di dieci anni che gli si è offerto e che, costernato dal suo rifiuto, si è a sua volta suicidato. Trama tanto poco verosimile quanto gremita di sentenze dal sentore ecclesiastico tanto superficiale quanto blasfemo (“Inculare un angioletto è il solo gesto rivoluzionario che si possa concepire oggi”, “Vedere nudo un ragazzino per toccare Te, mio Dio”, e via dicendo) e di spezzoni crudamente pornografici, specie nei passaggi che l’autore afferma di avere attinto al Deep Web.
Un libro in cui il protagonista sogna che Gesù “incarnandosi si è aperto il costato, si masturbava, ha pianto” e che alla fine allo stesso dio rimprovera con prosa ineffabile: “Sei un bastardo, te le fai tu le regole… muori o resusciti secondo come ti gira, ti lasci sputacchiare sapendo che cadrai sempre in piedi”.
Che tuttavia una compatta tifoseria di recensori ha cercato di presentare come una raffinata riflessione filosofica se non addirittura teologica sul tema del male, della tentazione, della religione. Di cui Siti sostiene di non avere il dono, al contrario del suo personaggio. Il quale però è, dichiaratamente, anche il suo alias (“Don Leo c’est moi”, ha confidato, riecheggiando Flaubert).
E così via, in un crescendo di contraddizioni la cui goffaggine sarebbe trascurabile se da ogni angolo di giornale, sito o social non ci si fosse affannati a pagare al libro il tributo di attenzione cui probabilmente fin dall’inizio l’autore aspirava con l’ovvia scandalosità dell’argomento, la compiaciuta scabrosità della scrittura, gli svogliati spunti di denuncia buttati qua e là.
Fin dall’inizio tutti gli opinionisti, affannosamente interpellati sul falso problema della maggiore o minore liceità di rappresentare in un libro la pedofilia o la tentazione pedofila, si sono giustamente trincerati dietro la necessità della critica di non rifarsi a categorie moralistiche ma di valutare l’arte letteraria di ogni opera, per quanto al primo impatto disgustosa. Ma il fatto è che il giudizio su cosa sia o non sia letteratura è affidato agli addetti ai lavori e questi ultimi, in Italia almeno, hanno abitudini peculiari.
Sembra esserci, nella minuscola falda di sottobosco che a volte generosamente si suole chiamare ambiente letterario italiano, una sorta di assicurazione che permette ai suoi tutelati di figurare degnamente in imprese editoriali senza correre il rischio di essere giudicati se non da un ristretto novero di periti di cui peraltro entrano contestualmente a far parte.
La generosità della copertura è talmente superiore al premio assicurativo — un po’ di obbedienza politica, rinuncia all’esplicita opinione personale nelle recensioni, gioco di gruppo nelle giurie dei premi, insomma piccoli oboli — da generare una fidelizzazione da polizza scudo.
Siti, che pure ha audacemente dichiarato di “non occuparsi del successo materiale dei suoi libri”, ma che ha purtuttavia ottenuto il premio Strega, cosa oggettivamente impossibile senza un minimo interesse per quanto sopra, fa parte di questo dinamico giro di relazioni pochissimo pericolose, anzi, tese a evitare a chi le coltiva gli infortuni del giudizio e della critica.
L’anomalia si è però verificata proprio all’inizio di quello che sembrava essere il solito percorso del solito libro un po’ furbo, un po’ improbabile, scritto con un orecchio al cicaleccio dei forum tv e un occhio alla chiesa. Incredibilmente, è stato stroncato il giorno stesso della sua uscita in libreria e proprio dalle colonne del giornale più autorevole, politicamente corretto e generoso verso la letteratura scudata.
E’ stato questo il vero scandalo, che ha scatenato la danza di sdegnate reazioni difensive, che hanno confuso il lettore comune, il quale ha forse cominciato a credere di non capire nulla di letteratura.
Altrimenti, perché i critici avrebbero dovuto scrivere cose tanto complicate e contraddittorie? lodare del libro l’”energia artistica e visionaria” e la “mano magistrale” nel rappresentare la “lussureggiante foresta di scrupoli e ossessioni”, attribuirgli l’enunciazione filosofica di “un paradosso etico classico: quale azione compiere se entrambe ci dannano”, facendo entrare il lettore “nelle temperature torride del ‘romanzo d’idee’” alla Dostoevskij, alla Gide, alla Thomas Hardy? sostenere che l’autore è un “miscredente” ma nello stesso tempo non ha alcun intento blasfemo perché è “sempre tentato dall’incendio della fede”?
A questo punto il lettore non si raccapezza più. Perché tutti negano che si tratti di un libro pedofilo, quando la scena più riuscita, a detta dell’autore per primo, è “l’atto d’amore” pedofilo tra il protagonista adulto e l’undicenne Massimo (“Forzo con l’imboccatura della bottiglia la muscolatura anale, rosa; la contrazione è incontrollabile, col conseguente rilassamento esce un liquido scuro”), definita da Siti “molto casta” e dai critici la più autentica? e quando poi, per la mancata consumazione di un ulteriore atto pedofilo, quello che il decenne Andrea reclama e il prete scrupoloso non concede, si suicidano in due, prete e bambino?
Guai a dirlo. Perché la parola pedofilia, secondo Siti, non designa, come invece suggerirebbe il dizionario, l’atto sessuale tra un impubere e un adulto, bensì una generica “filìa”, ossia attrazione per i bambini. In pratica, per indicare la benevolenza divina verso tutto ciò che è umano Siti interpreterebbe la pedofilia come filantropia, parola usata anche nel vocabolario teologico.
Donde il grave dilemma: occorre rompere ogni tabù pur di affermare quello che i Frankie goes to Hollywood chiamavano il Potere dell’amore? Ovvio che no, e che quello che Siti finge di porre è un dilemma inesistente.
Messo alle strette in un’intervista, chiama incautamente in causa Freud e il suo concetto di “perversione polimorfa” infantile, ignorando o dimenticando che nella teoria freudiana dello sviluppo sessuale questa fase si riferisce alla costituzione della psiche precedente la genitalità e rischiando di far incorrere il lettore nell’equivoco più grave dei pedofili: interpretare la richiesta di un bambino nel linguaggio della sessualità adulta, incanalarla nel desiderio, farla diventare atto sessuato. Non tutti i tabù si possono rompere. Ci sarebbero anche l’infanticidio e l’antropofagia, allora, ma ci vuole la penna di Swift per avanzare quella “Modesta proposta”.
Il punto è che Siti non è Swift, né somiglia ad alcun altro degli autori pomposamente evocati nella gara dei critici ad alzare il tiro così che la palla sfugga agli occhi del pubblico finendo in una zona dove la barriera della presunta alta cultura lo scoraggia a guardare. Ma non è così che funziona la letteratura. Lo scrittore scrive, il lettore legge, e deve poter giudicare senza che gli siano parate davanti intimidatorie barriere protettive.
Alcuni dei critici hanno ricordato l’obbligo dell’artista di guardare nell’abisso. Ma se è vero che, come diceva Nietzsche, se guardi nell’abisso l’abisso guarderà in te, l’abisso su cui Siti si è chinato deve essere rimasto veramente deluso. A parte l’erratica implausibilità della trama, è eresia pura — altro che fede o non fede cattolica — citare Flaubert o Dostoevskij o Hardy o Bernanos o Nabokov o perfino quel vero pedofilo di Gide (l’unico a fornire, in un racconto, Corydon, un possibile antecedente alla costruzione narrativa), che sono scrittori e hanno saputo riscattare con la scrittura le mediocrità e le frivolezze, le viziosità e le bassezze della natura umana.
Non è certo il confronto con loro a riscattare le analoghe caratteristiche — mediocrità, frivolezza, viziosità, bassezza — che riscontriamo nella scrittura di Siti. Al contrario, le esaltano.