Marco Molendini per Dagospia
Il tempo diventa più breve quando ci si ricorda di persone speciali e Antonio Carlos Jobim (Tom per i brasiliani) era una persona molto speciale, oltre a essere un meraviglioso creatore di musica.
Ci ripenso spesso a lui e avverto la dolorosa mancanza, anche se sono ancora vive le sue battute, il suo umorismo, le sue passioni, i ricordi di un Brasile che non c’era più, Ipanema e la sua Lagoa dove i pesci saltavano sull’acqua, la musica, gli amici, le avventure americane che lo facevano arrabbiare, il giorno che l’ho conosciuto di persona, a casa di Sergio Bardotti e poi, a Rio, proprio quarant’anni fa, nella villetta di Rua Perì al Jardim Botanico, a due passi da quella di Caetano e da quella di Vinicius de Moraes, che era morto da pochi mesi.
Lo ricordo seduto nel patio assolato con un asciugamano sulle spalle e il barbiere che gli aveva fatto la barba e gli stava tagliando i capelli. Doveva essere un’intervista, è stata una giornata di racconti e risate, come poi ce ne sono state altre altrettanto indimenticabili.
Risale proprio a quel periodo un disco imperdibile, un concerto registrato a Belo Horizonte nel marzo dell’81, un concerto speciale perché Tom aveva accettato di andare finalmente in scena da solo, lui e il suo pianoforte, un’esperienza inedita ma che avrebbe segnato gli anni a venire, perché proprio in quell’occasione si convinse che anche come cantante ci sapeva fare. E il disco lo testimonia in modo esplicito, per la sensibilità, il gusto, la capacità espressiva, anche il timbro della voce così personale e intenso.
L’impatto è esplicito da subito, con l’introduzione (in genere ignorata) di un capolavoro di successo come Desafinado: “Quando eu vou cantar, você não deixa/ E sempre vêm a mesma queixa/ Diz que eu desafino, que eu não sei cantar” (Quando mi metto a cantare, non me lo permetti/ e arriva sempre lo stesso lamento/ dici che stono, che non so cantare), Tom riempie le parole di un vago senso di solitudine, di estraniamento, che non può non essere anche un riferimento alla singolarità della situazione, lui interprete vocale inusuale che si esibisce in pubblico.
E invece, con quel suo approccio intimo e naturale, come fosse nel salotto di casa, le canzoni trovano nuova forza, diventano racconti fatti in prima persona, i suoi successi più consumati dall'uso, a volte dagli abusi, vengono ripulite da ogni incrostazione, rilucidate, acquistano freschezza, come la stessa Desafinado, come Garota de Ipanema, come il capolavoro assoluto Corcovado che si dilata, diventa un prezioso madrigale evocativo dedicato a una felicità afferrata e rivissuta: "Muita calma pra pensar e ter tempo pra sonhar” (Molta calma per pensare e aver tempo per sognare).
Quei pezzi gloriosi scorrono leggeri, sono 18, il testo non viene mai ripetuto, il piano si incarica di incorniciarli e arricchirli. Un capolavoro di misura e eleganza. È un gioiello di un talento strepitoso questo album “Antonio Carlos Jobim em Minas” diventato pubblico solo 23 anni dopo la sua registrazione e che giace nel mare di Spotify, in mezzo alla sua sterminata produzione.
Scorrono lentamente e intensamente Aguas de março e Agua de beber, la chopiniana Retrato em branco e preto, la bellissima Ligia, la classicissima Chega de saudade, Samba de uma nota so.
Scorrono e sollecitano i ricordi di un essere speciale che se ne è andato tanto tempo fa, bruciato dalla malattia a soli 67 anni. Non posso non ricordare con rammarico l’ultima volta che l’ho incontrato, affettuoso e spiritoso come sempre: trent’anni fa a Sanremo, al Tenco dove veniva premiato con Caetano Veloso
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