Giorgio Gandola per "la Verità"
i furbetti del quartierino docufilm
«È come se il Chievo si comprasse la Juve». In quell'estate pazza e sudata del 2005 nelle redazioni dei giornali e in Borsa è la frase più ripetuta, la metafora più piaciona, per commentare lo sbarco sulla piazza finanziaria dei «furbetti del quartierino» su un brigantino corsaro con l'obiettivo di mangiarsi in un boccone Banca Antonveneta, Banca Nazionale del Lavoro e Corriere della Sera.
Una scorpacciata, una spallata al salotto buono delle grandi famiglie e dei patti occulti, il tentativo di trasformare grigi consessi cari a Enrico Cuccia in un capitalismo pop e un po' caciarone, senza distinguere i consigli d'amministrazione dalle feste in Costa Smeralda con le ragazze in guêpière e i tronisti in perizoma ingaggiati da Lele Mora.
È un mondo nuovo che balla per pochi mesi e che domenica e lunedì torna protagonista in un docufilm di History Channel (pacchetto Sky) dal titolo obbligato I furbetti del quartierino, frase rubata in un'intercettazione a Stefano Ricucci, l'odontotecnico di Zagarolo, il più immaginifico della compagnia. È la storia di banchieri ambiziosi come Giampiero Fiorani detto Giampy, lodigiano, figlio di un operaio della Polenghi Lombardo, che dalla tolda della Popolare di Lodi lancia l'offensiva verso i palazzi del potere finanziario. È la storia dei cosiddetti «immobiliaristi» come lo stesso Ricucci, Danilo Coppola, Giuseppe Statuto i quali in un mercato capace di far raddoppiare gli investimenti danzano il ballo del mattone nel modo più spregiudicato.
È anche lo spaccato di un'Italia in preda alla febbre del nuovo millennio e dell'euro, travolta da plusvalenze e giochi di Borsa, in cui anche il tornitore Brambilla sogna l'investimento vincente per raddoppiare il capitale. Tutto questo senza accorgersi di altri magheggi bancari e della tempesta perfetta all'orizzonte, con il crollo di Lehman Brothers e l'ingresso nella Valle di lacrime, che non è mai il nome di una discoteca. In spiaggia imperversano i Sugarfree con il brano Cleptomania, che già dovrebbe far capire qualcosa. E i furbetti tentano la rivoluzione, provano a stropicciare le giacche di seta delle storiche dinastie del capitalismo italiano, aiutati dal finanziere Emilio Gnutti, signore bresciano della «Razza Padana».
Fiorani trasforma la Popolare di Lodi (banca di agricoltori e allevatori) in un colosso con 1.000 sportelli, delibera un aumento di capitale di 500 miliardi (in lire) e con l'aiuto degli immobiliaristi venuti dalla campagna romana prova a scalare l'Antonveneta di Padova, decima banca italiana, per contrastare l'opa lanciata dal colosso olandese dai piedi d'argilla Abn Amro, storico sponsor dell'Ajax di Amsterdam.
Lo fa con metodi spicci; nell'inchiesta si parlerà di prestanome ottantenni, voti di morti in assemblea, operazioni su conti di correntisti ignari. Annuncia di lottare per difendere l'italianità e trova un alleato nell'allora governatore di Bankitalia, Antonio Fazio. Euroscettico, consapevole che l'Italia avrebbe dovuto assestare alcuni parametri prima di abbracciare la moneta unica, Fazio è mosso da un intento legittimo.
Per lui «le banche straniere vengono a raccogliere i risparmi italiani per poi investirli in altri paesi». Il docufilm racconta tutto questo e lo fa con il supporto dei consulenti Fabrizio Massaro e Vittorio Malagutti, dà spazio al superteste dell'accusa Egidio Menclossi, ex amico di Fiorani, direttore della filiale di Lugano e primo a capire «che venivano messe in piedi strane operazioni finanziarie». I furbetti del quartierino non si risparmiano nulla, Ricucci scala banche e anche cuori da jet-set come quello di Anna Falchi, showgirl da rotocalco e calendario sexy. La conquista regalandole un mazzo di rose al giorno e un aspirapolvere Folletto.
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È lui il centro del rutilante circo. Lui che, intercettato, butta lì frasi entrate nell'immaginario collettivo come «Quello sta a fa' er frocio col culo degli altri». Quando scopre che i metodi della compagnia sono sotto i riflettori della Procura di Milano minimizza: «Mica 'amo seviziato qualche ragazzino».
I critici lo definiscono lanzichenecco. Lui ci rimane male: «Lanzi de che? Lo dicono a me, che vado a letto ogni sera con la Falchi?». Uno spasso, ma c'è qualcuno che non ride. È Giovanni Consorte, soprannominato il Cuccia rosso, storico tesoriere delle cooperative, colui che dovrebbe far entrare l'ex Pci negli affari che contano con la scalata di Unipol alla Bnl. La frase «Allora abbiamo una banca?», pronunciata al telefono con Piero Fassino ha fatto storia.
Stessi alleati, Ricucci e Coppola. Con loro, gli eredi del partito comunista cercano la legittimazione finanziaria e Massimo D'Alema benedice l'affare con l'uscita: «Che male c'è a speculare, l'importante è che si rispettino le leggi». È proprio questo il problema. Alla fine di quell'estate sgangherata e folle la Procura di Milano sequestra le azioni, le scalate falliscono e la vulgata sussurra: «I poteri forti hanno reagito, per loro puoi toccare tutto ma non il Corriere».
I furbetti del quartierino hanno lottato e perso. Volevano vincere senza omologarsi, volevano rompere gli schemi per sempre. Hanno sorpreso tutti in contropiede ma nei tempi supplementari il sistema li ha fermati.
Alla fine vengono arrestati, il governatore Fazio si deve dimettere. Il resto lo fanno le sentenze: tutti condannati in media a tre anni e qualche mese. Ne escono vincitrici le grandi banche e le tartarughe del potere metropolitano. Quando la Cassazione conferma le sentenze, in alcuni impenetrabili attici di Roma e di Milano c'è chi brinda a champagne. Con gli stessi canini affilati ma con elegante sobrietà.
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