Estratto dell’articolo di Aldo Cazzullo per www.corriere.it
Antonello Venditti. Il 14 giugno uscirà l’album «Cuore 40th Anniversary Edition» che comprende il nuovo brano «Dì una parola»
[…] Lei ha scritto anche un romanzo autobiografico, «L’importante è che tu sia infelice».
«È quel che mi diceva mia madre Wanda. Ma non ho atteso il libro per raccontarmi. Quel che stavo vivendo, lo scrivevo e lo cantavo».
Chi è l’amico di «Ci vorrebbe un amico»?
«Lucio Dalla. Lucio mi salvò la vita, al tempo della mia separazione. Fu lui a capire che mi dovevo allontanare da Roma, e così per due anni vissi al castello di Carimate, in Brianza, dove venivano i più grandi artisti italiani a incidere i loro dischi. Pino Daniele, i Pooh, Fabrizio De André. Con Fabrizio passavamo notti a parlare, ad approfondire le nostre vite. Fu allora che diventammo davvero amici. Ma poi loro il venerdì partivano; io restavo solo. Sull’orlo del baratro. Entravo in un posto e dovevo uscire. Tutto mi faceva paura».
ANTONELLO VENDITTI SIMONA IZZO
Paura di cosa?
«Paura di me stesso. Della mia fragilità. E anche di salire sul palco. Paura di non essere amato. Più volte pensai di farla finita. Magari schiantandomi in macchina. Poi temevo di far del male agli altri. Avrei potuto centrare un albero. Ma guidavo troppo bene...».
E Dalla?
«Dopo due anni Lucio capì che per me era il momento di tornare a Roma: la città dove c’erano Simona e mio figlio. Un’angoscia tremenda. Mi trovò casa, a Trastevere. E mi convinse a riprendere i concerti».
[…] Una tra le sue prime canzoni si intitola «Mio padre ha un buco in gola».
«Papà aveva molte sorelle e un solo fratello: uomo d’ordine, buon padre di famiglia, finì la carriera da generale di corpo d’armata. Mio padre invece era un anarchico. Nel 1940 partì per l’Africa orientale come per una guerra personale: tipo Marlon Brando in Apocalypse Now. Comandava una sua mezza compagnia di ascari. Andò all’assalto degli inglesi da solo, si prese una pallottola al ventre che rimbalzò sulla fibbia da ufficiale e si conficcò nella gola».
Il buco.
«Sopravvisse, ebbe una medaglia d’argento — se fosse morto sarebbe stata d’oro —, e rimase prigioniero degli inglesi in Kenya per sette anni. Il fratello era con lui. Lavorava. Mio padre invece faceva il santone. Lo sciamano. Prevedeva il futuro, sollevava i tavoli, come gli avrei visto fare io stesso. Un giorno il campo di concentramento si allagò, mio padre fece come se nulla fosse, il fratello lo rimproverò: “Vincenzino, vieni a darci una mano!”. Lui lo sfidò a duello».
E gli inglesi?
«Tra ufficiali le convenzioni internazionali lo consentivano. Gli inglesi si appassionarono al duello tra fratelli, fioccavano le scommesse. Solo che mio zio non avrebbe mai sparato. Mio padre sparò. Alla gamba; ma lo colpì. Non si sono mai più parlati. Papà rientrò in Italia nel 1948, dopo il referendum: non l’avevano aspettato, avevano fatto la Repubblica senza di lui. Lo visse come un affronto personale».
[…] Sua madre era professoressa di latino e greco.
«Mi bullizzava. Mi diceva che ero sciocco e che ero grasso come un maiale; e la seconda cosa era vera. Ora lo chiamano body shaming. Ho letto la storia di Tiziano Ferro, e mi è parso che avesse copiato la mia vita».
Lei a chi somiglia?
«Da mio padre ho preso la vitalità, l’arguzia, lo spirito ribelle. E un poco anche il dono di prevedere il futuro».
antonello venditti, simona izzo, francesco de gregori e riccardo cocciante
«In questo mondo di ladri» è del 1988, quattro anni prima di Tangentopoli...
«Mi accorgo di cose di cui altri non si accorgono. Ero a Parigi con la mia compagna, che può confermarglielo. Mi sveglio e dico solo due parole: Terremoto... L’Aquila. Lo stesso mi è accaduto prima del terremoto di Amatrice. Il 29 novembre 2019 dissi che ci sarebbe stato un fatto immenso, inaudito, a livello mondiale: era il Covid».
Dopo la guerra suo padre divenne un dirigente del ministero degli Interni. […] È vero che […] la tirò fuori dalla caserma, nel 1968, la sera di Valle Giulia?
«Eravamo ad Architettura, chiusi nella palazzina cinese».
«Valle Giulia ancora brilla la luna...». Anche quella storia è diventata una canzone, «Qui».
«Tentammo di fuggire e finimmo in braccio ai carabinieri. Mio padre arrivò a mezzanotte, mi diede un cazzotto, e mi disse: “Vieni a casa, cretino”. Una duplice umiliazione di fronte ai miei compagni. Che restavano dentro».
Alla presentazione di un libro di Valerio Morucci disse che anche lei sarebbe potuto diventare un terrorista.
«I terroristi li conoscevo. Adriana Faranda era mia vicina di casa al Circeo. Giusva Fioravanti era nel mio liceo, il Giulio Cesare. Negli anni 70 Pierluigi Concutelli volle incontrarmi, ed è possibile che ci siamo visti a pranzo. Ho sempre frequentato anche quelli dell’estrema destra. E il Sessantotto lo vissi pure dalla parte dello Stato. Grazie a mio padre».
Perché?
«Mi lasciava libero di sbagliare. Però mi spiegava, carte alla mano, come stavano le cose. Gruppi che credevamo di sinistra, come Servire il popolo, erano in realtà di estrema destra. Il movimento fu infiltrato, eterodiretto, strumentalizzato. Rispetto ai compagni, avevo un vantaggio: lo sapevo. Anche per questo non sono diventato un terrorista. Perché avevo capito il grande inganno che c’era dietro il Sessantotto».
[…]
Lei era vicino al partito comunista.
«Il partito comunista ha salvato la democrazia in questo Paese. Quando vedevi sull’autostrada i pullman degli operai e dei contadini diretti verso Roma, sentivi come si era costruita la democrazia in Italia».
[…] Lei attaccò Craxi in una canzone intitolata L’ottimista: «Ha uno sguardo serio e corrucciato, quando parla a lungo dello Stato...».
«“...Ma poi si illumina d’immenso, quando viene l’ora di pranzo”. Craxi era l’uomo più potente d’Italia. A sinistra non mi difese nessuno; eppure avevo scritto canzoni politiche come Compagno di scuola e Modena. Mi ritrovai da solo. Ma allora, se non altro, si poteva criticare il potere».
Perché, adesso non si può?
«C’è un clima che non mi piace. Speravo che la destra si accontentasse della vittoria elettorale. Infine siamo tornati a una situazione pre-Berlusconi, al tempo del Movimento sociale. Viene da ringraziare che nel frattempo sia nata Forza Italia. Mi colpisce la frequenza con cui ripetono la parola “nazione”. Ma nella nostra Costituzione la nazione non esiste; esiste lo Stato».
Ce l’ha con Giorgia Meloni?
«Giorgia Meloni è una persona che fa. Si muove. Appartiene, come Elly Schlein, a una nuova generazione che fa ben sperare. La Meloni si sveglia la mattina e tenta di riparare i danni e gli abusi dovuti alla palese impreparazione di tanti che la circondano».
[…] Lei fu censurato davvero, nel 1973: condannato a sei mesi di carcere con la condizionale per aver cantato «Gesu Crì, quanto sei fico».
«Vilipendio alla religione di Stato. La padrona del teatro dei Satiri e il maresciallo cui si rivolse non conoscevano il romanesco: fico non era un insulto, era un apprezzamento. Ma erano altri tempi: i democristiani ti censuravano, però non ti odiavano. Erano iperprotettivi. Ed esisteva anche la censura del partito comunista, settaria e discriminatoria. Però tornare al manganello, questo no».
La Schlein come la trova?
«Mi sento vicino a lei, in quanto donna. Ma non basta essere giovani e donne; bisogna far politica in modo nuovo, senza rinunciare alla propria femminilità, non come la fanno gli uomini. Se no si diventa come Giulia».
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Quando ha visto De Gregori per la prima volta?
«Nel 1969. Cantava canzoni di Leonard Cohen, di Bob Dylan e sue. Si vedeva subito che aveva talento. Mi fece il provino Giancarlo Cesaroni, che aveva due attività: un laboratorio d’analisi e il Folk Studio. Anche se la sua grande passione era il suo cavallo. L’anticamera del Folk Studio era un bar, il bar delle Rose. Una volta Cesarani sorprese il fratello di De Gregori, Luigi detto Ludwig, che tirava le freccette a un’immagine del suo cavallo. Il cavallo si azzoppò. Ludwig rimase fermo a lungo».
[…] È vero che De Gregori e De André la trattavano dall’alto in basso?
«Fingevano di disprezzarmi; in realtà sapevano che avevo la pelle più dura di loro. Io li ho presi, gli sputi dei fascisti. Ho subito aggressioni e discriminazioni. Quando toccò a De Gregori ne fu atterrito, anche perché era fuoco amico, veniva da sinistra». […]
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