Marco Giusti per Dagospia
Finalmente gli architetti hanno un film da vedere oltre al vecchio e glorioso (e anticomunista) “La fonte meravigliosa” di King Vidor tratto dal romanzo di Ayn Rand, che ha offerto non poche ispirazioni a questo attesissimo, ambiziosissimo, lunghissimo, “The Brutalist”, terzo film diretto da Brady Corbet (“L’infanzia di un capo”, “Vox Lux”), che lo ha scritto assieme a Mona Fastvold, e lo ha girato in 70 mm VistaVision (davvero un tuffo al cuore) con la direzione della fotografia di Lol Crawley e vanta un grande Adrien Brody nel ruolo del protagonista, l’architetto ebreo ungherese Laszlo Toth che cerca di sopravvivere in America, Felicity Jones come sua moglie Erszbet, Guy Pearce come il ricco padronale Harrison Von Buren, Joe alwyn come suo figlio Harry, oltre a Stacy Martin e Isaach De Bankolé.
Un film che nelle sue tre ore e mezzo di durata, con tanto di ouverture iniziale, la musica è di Daniel Baumberg, e 15 minuti di intermission, ha modo di dipanare un quadro narrativo che tocca un po’ tutto, da Goethe (“Non c’è uomo meno libero di quello che dice di essere libero quando non lo è”) a “Amerika” di Kafka, ma si perde poi in un finale sionista, ambientato durante l’inaugurazione della prima Biennale Architettura del 1980, che farà storcere il naso a molti. Peccato, perché, pur non avendo il talento da grande narratore di un Paul Thomas Anderson, l’aspirazione è un po’ quella, Brady Corbet tiene fermamente in mano il suo film per oltre due ore, mettendo in piedi una storia che non è tanto semplice da raccontare.
E si permette dei cambi di scena inaspettati, come il lancio della celebre “One for You, One for Me” dei La Bionda sui titoli di coda, e delle belle invenzioni. Leggo, inoltre, che ha dovuto rimandare per due anni l’inizio delle riprese a causa del covid, cambiando gran parte del cast. Ma già l’idea di girare in 70 mm VistaVision dà al film una ricchezza visiva e un realismo inaspettati. Oltre al piacere di perdersi in questo magnifico schermo che ci riporta alla Hollywood degli anni ’50. Laszlo Toth, architetto ebreo-ungherese che si è formato alla Bauhaus, è scappato dall’Ungheria, alla fine della guerra, e cerca fortuna in America bussando alla porta del cugino Attila.
Ebreo come lui anche ha cambiato cognome è diventato Mr Miller della Miller&sons e ha sposato una cattolica. Sarà il cugino a riportarlo a fare l’architetto e a costruire una libreria per il ricco Harrison Von Buren. Se il primo incontro sarà uno scontro, Von Buren recupera nel tempo e tira fuori dalla miseria Laszlo, riesce a trovare il modo di fargli arrivare dall’Ungheria l’adorata moglie e la nipote e gli affida la progettazione di un gigantesco centro culturale-religioso-sportivo che il magnate vede come omaggio alla defunta madre. Ma le cose non vanno come devono andare.
Il rapporto tra il genio creativo di Laszlo e il comportamento padronale di Von Buren diventa tossico, mentre con la moglie, finita sulla carrozzella perché denutrita in tempo di guerra, Laszlo non riesce a ricostruire una vita normale di coppia soprattutto sessualmente. Ma è la tossicità del contrasto tra il committente e l’architetto, con tanto di viaggio alle cave di marmo di Carrara e presenza di uno scalpellino anarchico, interpretato dall’attore garroniano Salvatore Spadone, a fare esplodere qualsiasi possibilità di recupero. Finché il film segue lo scontro artista-magnate le cose funzionano bene, anche l’arrivo della moglie dall’Ungheria e le complicazioni sessuali del suo arrivo funzionano.
Ma quando il film inizia a predicare la fuga verso Israele come ritorno a casa di un popolo che l’America sembra non volere in quanto straniero, non capiamo più cosa seguire. E il finale fa esplodere delle ambiguità e delle ombre che ci sembrava di aver capito in modo diverso. Resta un’operazione forte e coraggiosa, una bella regia, una grande interpretazione di Adrien Brody. E questo schermo meraviglioso che ci riporta al cinema coi “fine rullo” in evidenza in alto a destra.