Marco Giusti per Dagospia
Qualcosa si muove nel cinema e nel cinema italiano? Chissà. Il Leone d’Oro a Laura Poitras per “All the Beauty and the Bloodshed”, che uscirà da noi distribuito da I Wonder, un Leone d’Oro importante per una documentarista che ha già vinto un Oscar e un Pulitzer per “Citizenfour”, è stato accolto ieri sera nel gelo da critici e presenti. Credo che nessuno se lo aspettasse, anche se sui siti esteri era data tra i favoriti. Del resto la notizia della sua possibile vittoria non era trapelata perché i twittaroli non l’avevano riconosciuta al suo ritorno al Lido.
Un po’ diverso il caso di Alice Diop e della sua opera prima di fiction, “Saint Omer”, che si vedrà a Roma, al Festival di Villa Medici, segnatevelo dai, giovedi 15 settembre alle 18 nel Grand Salon, ma che io avrei preferito la sera nel piazzale al posto di “Les enfants des autres” di Rebecca Zlotowski, previsto lo stesso giorno alle 21, o di “Padre Pio”, venerdì sera alle 21. Il caso di Alice Diop è diverso, ma non troppo, perché premia un’altra documentarista militante al suo primo film di fiction, con un film che è una sorta di saggio su un caso di infanticidio che apre le porte a un dibattito sulla maternità, sui rapporti tra le matrici culturali africane e spiritistiche e la cultura francese o europea.
Un film difficile, ma anche molto avanzato, mentre quello della Poitras è un documentario di denuncia, con un’artista come Nan Goldin testimonial, sul caso della famiglia Sackler, legata a un farmaco terribile che dà assoluta dipendenza, ma anche legata al mondo dell’arte visto che mette soldi su soldi su musei e grandi istituzione museali. Un film bomba, insomma, che i critici italiani non hanno proprio capito.
Come non hanno davvero capito fino in fondo l’importanza e la perfezione di “Bones and All” di Luca Guadagnino, unico italiano premiato come regista e per la sua giovane protagonista Taylor Russell, visto come film senza cuore, ho sentito proprio questa frase, un po’ freddo. Guadagnino è tra i pochissimi registi, non solo italiani, completamente al servizio del suo film. Come lo erano i grandi registi che abbiamo più amato, da Fritz Lang a Nicholas Ray, dove non ci sono sbaffi autoriali da far vedere ai critici, ma solo pura messa in scena di un racconto con estrema onestà dove i personaggi possano esprimersi e uscire fuori nella loro realtà. Per questo Taylor Russell e Thimothée Chalamet sono fenomenali, perché possono uscire allo scoperto e mostrarsi nella loro fragilità.
Ma quale regista oggi è al servizio di un film? Capisco che una giuria così agguerrita, ultrafemminile, ultrapolitica, gli abbia preferito film di donne altrettanto agguerrite, è il terzo anno di seguito che il Leone d’Oro è vinto da una donna, ma ne ha riconosciuto un grande valore di cinema. Puro. Di regia. E questo basta e avanza. E credo che sarà quello che andrà meglio in sala, come accadde l’anno scorso a “E’ stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino, anche se i dati degli incassi non trapeleranno per policy di Netflix.
Quanto al resto, è vero che c’erano troppi film modesti, messi lì per riempire il tappeto rosso, è vero che i film italiani erano troppi e non sempre troppo buoni, come è vero che la gran parte di quel che abbiamo visto lo troveremo tra un mese o due sulle piattaforme, “Blonde” (28 settembre Netflix), “Bardo” (16 dicembre Netflix), “Athena” (23 settembre, Netflix), ma è vero pure che il cinema in sé, il modo di vederlo e di usarlo sta completamente cambiando.
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