Marco Giusti per Dagospia
‘Na capocciata. Proprio con una capocciata sul pietrone scozzese dopo due ore di noia il protagonista, Caleb Landry Jones, vestito con ciavatta, calzettone calato, palandrana da sfollato di Termini, chiude un film che rimane tutto sommato un enigma, oltre che un mattone, anche per lo spettatore più attento. E forse a dar la capocciata dovremmo essere noi.
Stiamo parlando di “Harvest”, film in concorso inglese diretto dalla regista greca Athina Rachel Tsangari, che molto colpì a Venezia una decina d’anni fa con “Attenberg”, Coppa Volpi per l’interpretazione femminile. Questo invece ci colpisce, oltre che per la capocciata sul pietrone, per la parabola un po’ confusa sulla nascita del capitalismo e del controllo della terra nella Scozia padronale di un’epoca che sembrerebbe, ma solo nella seconda parte, il 700. Sperando di non sbagliare.
Il film è tratto da un cupo romanzo di Jim Crace (“Il raccolto”, uscito in Italia da Guanda) e si apre sulla tranquilla vita di un gruppo di contadini e pastori nella terra di un nobile, Charles, Harry Melling, che è cresciuto assieme al figlio della sua balia, Walter, Caleb Landry Jones, che sembra un po’ il loro capo, essendo anche l’unico istruito, capace di leggere e scrivere. Charles e Walter dividono una triste vedovanza, avendo entrambi perso le amate mogli colpite da una puntura di ape.
L’arrivo di una serie di stranieri, un mappatore, Arinzé Kene, che deve stabilire i confini della proprietà, di una strega portoghese, Thalissa Teixeira, e di due fuggiaschi, mette in subbuglio la piccola comunità, estremamente superstiziosa e diffidente rispetto a qualsiasi novità. Ma la situazione esplode quando entra in scena, come nuovo padrone, Jordan, Frank Dillane, cugino della defunta moglie di Charles, pronto a cacciare tutti e a trasformare il paradiso dei due vedovi in terra di pascolo per le pecore.
Charles e Walter riescono a non fare assolutamente nulla per impedire il disastro e la perdita della terra, mentre i contadini iniziano a dare una serie di spiegazioni assurde alla loro mala sorta. Malgrado una bella fotografia in 35 mm, fa effetto ormai vedere lo schermo un po’ sporco ai bordi come tanti anni fa, e facevano ancora più effetti i 25 rulli di 70mm in VisaVision di “The Brutalist”, malgrado un bel cast capitanato da Caleb Landry Jones, il film è più inerme dei suoi protagonisti.
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