Marco Giusti per Dagospia
“Queer”, il film tratto dall’omonimo romanzo di William S. Burroughs presentato oggi in concorso a Venezia, è il capolavoro del cinema di Luca Guadagnino. E punta decisamente al Leone d’Oro, o alla Coppa Volpi per il suo protagonista, Daniel Craig, che qui si reinventa totalmente e si toglie anche l’ombra ricoperta di pallottole di James Bond. Può non piacervi.
Ma se non vi piace “Queer”, o anche se dite che non lo avete capito, non vi piace il cinema di Guadagnino, perché, al di là delle sue origini letterarie e della incredibile presenza di Daniel Craig nei panni del fascinoso, genettiano, autopunitivo Lee, alter ego dello scrittore, è il suo film più coraggioso e personale. Come “Challengers”, che doveva aprire la Mostra di un anno fa, era quello più moderno e femminile.
“Queer” è il film dove tutte le sue storiche ossessioni, cinematografiche, letterarie, produttive, scenografiche, confluiscono e prendono una nuova vita lì, nella magic land di un border messicano dove tutto è possibile. E qui le sue abilità di regista, produttore, art director, perfino fan o, se preferite, studioso di Bernardo Bertolucci, di Powell&Pressburger sono più evidenti e si liberano dai modelli accademici.
Al punto di vivere finalmente di luce propria, fosse anche tutta quella necessaria, e fintissima, da studio felliniano di Cinecittà che serve per illuminare il suo spettacolare protagonista, vero motore del film, affogato sia nell’abito bianco da “Improvvisamente l’estate scorsa”, che nasconde la pistola che a un certo punto dovremo pur veder sparare (fosse anche in flashback, fosse anche puntata sulla persona sbagliata), sia in una iper-letteraria, iper-cinematografica Ciudad de Mexico dove nessuno della troupe ha messo piede, ma dove Guadagnino può modellare il suo desiderio di querellismo, di cinema saggistico sul cinema del passato.
Ma anche, perché no?, liberarsene in una giungla finta dove si muove una spettacolare Lesley Mainville. Inserito in un momento di totale felicità creativa, quale altro regista può vantare altrettanto oggi?, fra film che hanno avuto esiti alterni, ma tutti molto amati dalla critica internazionale, come “Bones and All” e “Challengers”, e l’ancora al montaggio “After the Hunt”, per non parlare dei tanti che contemporaneamente ha prodotto, solo a Venezia quest’anno sono due, “April” della georgiana Dea Kulumbegashvili, in concorso, e “Diciannove” di Giovanni Tortorici, a Orizzonti, “Queer” è un’opera maggiore, decisamente e volutamente ambiziosa.
Prodotta in prima persona assieme a Lorenzo Mieli, fatta scrivere al Justin Kuritzkes già sceneggiatore di “Challengers”, ma a lungo pensata e sognata come un progetto d’amore inseguito da anni, per il quale Guadagnino ha riconfermato il suo gruppo creativo, Sayombhu Mukdeeprom alla fotografia, Trent Reznor e Atticus Ross alla musica, Marco Costa al montaggio, sembra qualcosa che, con un doppio salto mortale, faceva in qualche modo già parte del suo repertorio visivo. Come i progetti molto sognati e da molto tempo accarezzati, penso non a caso all’ultimo film di Werner Schroeter, “Nuitn de chien”, presentato proprio a Venezia.
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Arriva sullo schermo con la carica del testo letterario di Burroughs, per molti intraducibile per immagini, un testo iniziato nel 1952, dopo la fuga del Texas (e dopo l’omicidio “per sbaglio” della moglie) e l’arrivo in Messico, e portato avanti trent’anni, tra droghe, alcol, ripensamenti, ma che Luca ha avuto tempo di modellare narrativamente e visivamente all’interno del suo stesso lavoro e del cinema che ama, facendo di Lee un modello spugnoso di maledetto che va dal Marlon Brando di “Ultimo tango” al Robert Mitchum di “Il tesoro di Vera Cruz”.
luca guadagnino drew starkey daniel craig - festival del cinema di venezia 2024
Lee, Daniel Craig, è uno scrittore spiaggiato nei gay-bar di Ciudad de Mexico in cerca di ragazzi, che ha molto da farsi perdonare e forse da dimenticare, così tanto da non osare nemmeno descriverlo, che a un certo punto si innamora di Allerton, Drew Starkey, ebreo americano freddo e distante, pronto a vendersi per soldi, ma che non mostra per lui lo stesso interesse. Tra droghe, alcol, scopate non memorabili coi pantaloni calati, il compiacimento di un auto-massacro alla Camus, Lee si trascina fino nella giungla, alla ricerca di qualcosa di magico, lo yage, che potrebbe dargli il controllo della mente.
Come in un film americano anni ’50 diretto da Don Siegel o Byron Haskin, quello che vince su tutto non è l’amore, è la costruzione dell’idea di avventura di un personaggio che vuole dimenticare e al tempo stesso esserci per raccontare una storia che lo vede protagonista della propria disfatta. Guadagnino, come Burroughs, sembra ossessionato dalla costruzione del disfacimento del protagonista.
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Non è l’amore per Allerton, a muoverlo, ma l’idea dell’amore e il perdercisi dentro, letterariamente. Nel Novecento di Fassbinder, Camus, Pasolini, ormai senza confini, regioni, paragrafi. Daniel Craig è così bravo, in questo percorso, da far vivere anche i piccoli momenti di pausa che precedono le sue minime azioni. Mi dispiace solo non aver visto la versione di tre ore e mezzo con i gay bar di Ciudad de Mexico. Lo distribuisce da noi la Lucky Red e in America la A24.
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