Giampiero Mughini per Dagospia
Prendi in mano questo recentissimo numero di Micromega – la rivista fondata da Paolo Flores poco meno di quarant’anni fa e da cui oggi lui si congeda dopo averne affidato la direzione a una sua collaboratrice – sulla cui copertina sono i nomi dei tanti che a quella rivista hanno collaborato. Ed è come se ti si affollassero innanzi agli occhi i destini di un’intera generazione. Più ancora che questo, è come se ti si manifestasse l’aura di un tempo, quell’ultimo spicchio del Novecento di cui siamo figli così tanti, Paolo e io fra gli altri.
Avevamo allora poco più o poco meno di trent’anni, era il tempo in cui si stava formando la nostra ossatura intellettuale, quel tempo assieme vitale e sciagurato in cui appariva così facile distinguere i buoni (i combattenti vietnamiti) e i cattivi (i soldati americani che andarono a battersi in Vietnam), quel linguaggio che oggi ci appare come una lingua straniera e che comunque infiammò la nostra giovinezza.
PAOLO FLORES DARCAIS - MICROMEGA
Non c’era locuzione ideologica di quel linguaggio (o forse dovremmo dire gergo) su cui non ci azzuffassimo a vicenda o di cui non scrivessimo per pagine e pagine, locuzioni di cui oggi non corrisponde la benché minima realtà (A chi sarebbe venuto in mente allora che il problema della carente natalità, di quanti pochi figli facciano oggi gli italiani, mette in dubbio la sopravvivenza dell’Italia come nazione a sé stante?).
Ebbene, di quel tempo e di quella realtà generazionale Micromega è stata una sorta di messa a verbale, ne ha offerto una documentazione autentica e imprescindibile. Questo per il talento e l’ostinazione del suo direttore (che era molto di sinistra ma comunista nemmeno un po’) e per la qualità dei collaboratori cui lui si affidava e i cui nomi risaltano tutti sulla copertina del numero di Micromega da cui sono partito.
ULTIMO NUMERO DI MICROMEGA DIRETTO DA PAOLO FLORES DARCAIS
Da Giorgio Ruffolo (l’ex ministro socialista che stette a fianco di Paolo nel lanciare la rivista e la sua brillante formula) a Michele Serra, da personaggi autorevoli della sinistra ufficiale quali Rino Formica e Aldo Tortorella a Lucio Caracciolo (futuro direttore di un’altra bellissima rivista, Limes), da un esordiente di valore quale Pier Luigi Battista a un magistrato di punta quale Gian Carlo Caselli.
C’era una qualità bruciante in quella nostra generazione, una qualità e un trampolino che del resto avevano fatto da asse portante della storia del Novecento italiano. La potremmo definire “l’arte della rivista”, il saper mettere assieme un gruzzolo di intellettuali che individuassero una comune latitudine e la sostenessero a furia di numeri di riviste ricchi di centinaia di pagine eruttate ogni due o tre mesi.
Aveva cominciato a inizio secolo Giuseppe Prezzolini con la sua Voce, quella di cui è stato scritto che ospitò i primi germi tanto del fascismo che dell’antifascismo. Continuò Leo Longanesi, con le riviste da lui successivamente ideate per poco meno di trent’anni. Nell’immediato dopoguerra arrivò il Politecnico con il quale Elio Vittorini voleva dimostrare che il fronte dell’antifascismo era culturalmente omogeneo, il che non era vero affatto e difatti la rivista capitombolò dopo pochi numeri.
Vendeva poche copie Officina, la rivista alla quale in una libreria antiquaria di Bologna concorsero fra gli altri Roberto Roversi e Leonardo Sciascia, ma fece da palpabile dimostrazione del fatto che il dibattito culturale in Italia non poteva ridursi alla dicotomia secca fra destra e sinistra. Uno che nell’inventarsi riviste ci sguazzava, Raniero Panzieri, creò dal nulla quei sei numeri dei Quaderni rossi da cui viene l’accanimento della gran parte dell’“operaismo” della sinistra giovanile tra Sessantotto e fine secolo.
Bellissima era Quaderni piacentini, la rivista di Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi, cui letteralmente ci abbeveravamo in quegli anni. Pur vivendo a Catania, un po’ lontano dai luoghi editoriali che contavano, ci misi del mio inventandomi nel 1963 il trimestrale Giovane critica e tenni duro per dieci anni. Nel 1973 ne uscì l’ultimo numero, il numero 37 e per me fu come se finisse la mia giovinezza, come se si chiudesse per sempre un’epoca irripetibile. Quella in cui noi “carbonari” avevamo qualcosa da dire e da raccontare agli italiani.
Di questo mio resoconto credo che Flores oggi non ne accetterebbe molto. Fin dai suoi vent’anni lui aveva l’idea di “fare” in prima persona, di riuscire a modificare la realtà che gli stava attorno, insomma di migliorare la società. Nel numero di Micromega di cui sto dicendo racconta che a un certo punto ebbe la proposta di fare politica attiva, di candidarsi in un qualche imminente appuntamento elettorale, e lui fu sul punto di dire sì.
NANNI MORETTI PAOLO FLORES DARCAIS
E comunque la sua rivista divenne la bandiera di una generazione, la più smagliante delle carte di identità possibili, in qualche occasione ne vendette copie a migliaia e migliaia, seppe organizzare eventi pubblici cui accorsero in tanti. E’ in quel momento che tra noi due avvenne una sorta di separazione consensuale innanzitutto sul piano umano. Da allora difatti non ci siamo più incontrati né abbiamo mai più parlato al telefono.
A quel suo modo di intendere la realtà italiana io non ci credevo, non pensavo che a sinistra ci fosse bisogno di ulteriori soggetti politico/partitici che dessero lezioni innanzitutto morali a coloro che erano già in campo, imprenditori e dirigenti politici et similia che fossero. E poi la cosa principale, Paolo e i suoi collaboratori si esaltarono nell’assistere all’attacco che la magistratura d’accusa stava portando alla classe politica italiana, e non che quella classe politica fosse esente da peccati ora veniali ora mortali.
Solo che in quel momento stava avvenendo qualcosa che stava mutando la fisionomia della scena politica italiana. Dov'era apparso da prepotente protagonista un socialista che più anticomunista di lui era difficile trovarne, Bettino Craxi. Venuta meno quella primazia che l'italocomunismo aveva avuto per tanti anni, si aprivano le porte a una sinistra più moderna, immune dal venerare partizioni ideologiche nate a inizio Novecento e che adesso erano più che usurate.
Uno dei leader di questo socialismo e mio amico, Claudio Martelli, mi chiese chi fosse il più adatto a presiedere un Centro culturale che a Roma riuscisse ad allargare il perimetro dell'influenza politica e culturale del Psi craxiano. Chi meglio di Paolo Flores, fu la mia risposta. E difatti Paolo quell'incarico lo ebbe e cominciò a esercitarlo. Benissimo.
Solo che in quelle settimane vennero fuori le notizie sul famoso conto corrente (i soldi erano di Silvio Berlusconi) di cui Craxi si avvaleva alla grande. Soldi, diciamo così, clandestini. Né Paolo usò mezzi termini nel definirli così. Lui la politica la voleva immacolata, il che non è mai stato da nessuna parte. Non ricordo se fosse lui a dimettersi o se fosse Martelli a congedarlo. Io non presi le difese di Paolo perché mi sembrava impossibile lavorare per il Psi e al tempo stesso esserne un critico feroce. Nel nostro gruppetto c'era chi la pensava alla maniera di Paolo e chi la pensava più o meno come me.
Paolo trovò un editore e per 38 anni ha fatto una bellissima rivista. Io da allora me ne sono stato in un cantuccio senza disturbare nessuno e senza competere con nessuno, sempre più convinto che la dicotomia secca fra destra e sinistra è oggi roba da antiquariato.
Quelli che sono andati perduti per sempre, ed è per me un lutto, sono i rapporti umani fra alcuni di noi che ruotavamo nell'ambiente che ho raccontato e che passavamo assieme le sere in pizzeria. Pigi Battista, che era allora uno dei più giovani e di cui oggi approvo il 90 per cento di quello che scrive (ad esempio nel suo recente e prezioso librino sulle manifestazioni odierne dell'antisemitismo), ha raccontato che quando incontrava qualcuno di quelli che la pensavano come Flores nemmeno più lo salutavano.
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