Lettera di Barbara Palombelli a Dagospia
Ieri alle 13,30. Elisabetta Villaggio, bella e solare, gli occhi lucidi, mi porta nel sotterraneo della Clinica Paideia, livello meno due dell'ascensore, e mi avvisa: lo vedrai tutto bianco... Paolo sembra un sacerdote indiano, rilassato e sereno. Lei aggiunge: non si è accorto di nulla, per fortuna. Scherziamo sul cibo, sul disturbo alimentare che i due gemelli Villaggio debbono aver sofferto, uno anoressico e uno bulimico, la faccio ridere ricordando quell'intervista alla radio in cui mi confessava di avere passato la notte a picconare petti di pollo congelati che sua moglie pensava di avere messo al sicuro.
Risaliamo insieme, le dico con il cuore: spero che qualcuno lo ricordi come un grande pensatore del Novecento, non come una macchietta comica. Oggi, sfogliando i quotidiani, scopro che invece sono pochissimi quelli che hanno capito la dimensione vera del personaggio che ieri ci ha lasciato. In televisione, mentre faccio colazione, Sergio Cofferati coglie il senso delle riflessioni di Villaggio: sociologia del lavoro aziendale ad altissimo livello.
E allora ho immaginato che Paolo avesse preso tanti anni fa una cattedra, che avesse insegnato all'università, che oggi fosse celebrato in Europa come uno scienziato del contemporaneo. L'inferno interiore che lo ha tormentato ogni giorno della sua vita - il cibo sovente agisce come autoflagellazione esistenziale - lo mostrava a chiunque lo avvicinasse. La morte, la fame e la fama: erano i suoi argomenti ossessivi.
Aveva un pochino perso la testa con il primo successo, passare da De André alla deliziosa e infame Porto Rotondo dei primi Settanta, con le sue trasgressioni oggi parrocchiali ma allora esibite e arroganti, gli aveva trasformato lo sguardo.
Ero ragazzina, guardavo quel circo con ironia, lui entrava e usciva dal gioco con perfidia, leggendo perfettamente anche lo squallore di certe situazioni. Da finto prestigiatore a scrittore, da macchietta a idolo di tre generazioni di italiani. Cinema, televisione, serate infinite a cazzeggiare, sempre con intelligenza, come ha ricordato Irene Ghergo a La7, figli che si perdevano e lui che non era un esempio.
Forte e debole, vincente e perdente, sempre sul palcoscenico, sempre in pubblico. Amato e odiato, per fortuna se ne fregava (o fingeva di fregarsene come facciamo tutti e soffriva come un cane?). Il vero Paolo Villaggio - il mio ultimo ricordo, sfocato, al compleanno di Stefania Sandrelli, muto e immobile, lo voglio cancellare - era in cattedra. Spero che le università italiane capiscano che nelle pagine di Fantozzi c'è tantissimo da capire e da studiare ancora.
ROBERTO DAGOSTINO DAGO E PAOLO VILLAGGIO FOTO MARCELLINO RADOGNA
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