Stefano Zurlo per “il Giornale”
A volte modesti dettagli aiutano a capire. A volta la concatenazione precisa degli avvenimenti può sfuggire nel frastuono generale. A maggior ragione se l'epopea di cui parliamo è quella di Mani pulite, oggi sotto i riflettori per il venticinquesimo compleanno. L'opinione pubblica si è divisa, anzi accapigliata, perché il Pool non riuscì a espugnare Botteghe oscure, così come aveva travolto il ponte di comando della Dc e del Psi.
E ciascuno dei protagonisti a distanza di tanto tempo racconta i passaggi di quella storia controversa e cerca di spiegare perché lo squadrone di Mani pulite si arenò davanti alle mura della cittadella rossa.
Dunque, un piccolo episodio può fornire gocce di informazione a chi vuol capire, senza teoremi e tabù. Era la primavera del 1993 e lavoravo per l'Europeo, il settimanale di casa Rizzoli. Il direttore Myriam De Cesco mi aveva chiesto di seguire proprio l' indagine milanese che stava squassando i palazzi del potere. Un pomeriggio arrivai dunque a Palazzo di giustizia. Era la prima volta o una delle primissime occasioni che avevo di entrare nel tempio della giustizia italiana.
Com'è sempre stato da quelle parti, a dispetto di mille annunci di cambiamento e razionalizzazione delle abitudini e dei comportamenti, a quell'ora non c'era nessuno o quasi e io mi aggiravo, perplesso, per quei lunghissimi corridoi che mi ricordavano i quadri di De Chirico. Conoscevo a grandi linee l'intricata geografia del Palazzaccio, se non altro perché figlio di avvocati, ma vagavo con un certo disagio in quegli ambienti, sonnacchiosi a quell'ora, in cui si stava riscrivendo la storia d'Italia.
ANTONIO DI PIETRO SAVERIO BORRELLI GERARDO DAMBROSIO
Mi ritrovai nell'interminabile corridoio della Procura, al quarto piano, il punto nevralgico della rivoluzione di rito ambrosiano. Camminavo e qualcuno mi veniva incontro: era Gerardo d'Ambrosio, il procuratore aggiunto, il coordinatore del Pool, in quel momento con Di Pietro, Borrelli, Davigo e Colombo uno degli uomini più famosi d'Italia. Mi squadrò, io mi presentai. Due minuti, qualche battuta con il suo inconfondibile timbro napoletano denso di ironie e umorismo, poi il procuratore mi rifilò la notizia che quasi non entrava nella mia testa: «Mani pulite è finita».
Lui parlava, io ascoltavo sgranando gli occhi, incredulo per lo scoop che stavo arpionando senza nemmeno aver buttato l'amo. La sostanza del ragionamento era che il più era stato fatto. Tangentopoli era stata svelata e il marcio attaccato. Formulai qualche domanda, tornai in redazione pronto a ricevere i complimenti della direzione che puntualmente arrivarono.
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Capivo e non capivo il perché di quella clamorosa confessione. Come mai un magistrato così navigato si era spinto fino a quel punto? Preparai il pezzo che fu pubblicato nei giorni successivi con grande enfasi e fu ripreso dai telegiornali. Lui, visto l'inevitabile clamore, accennò un mezzo dietrofront, qualcosa smentì e qualcosa smussò ma il messaggio era chiaro.
E quella «lettera» aveva un destinatario: Tiziana Parenti, il pm del Pool che indagava sulle presunte mazzette versate proprio al Pci-Pds e cercava di avanzare su quello che allora i quotidiani chiamavano pomposamente il fronte orientale di tangentopoli. In quelle settimane cruciali l' inchiesta era arrivata davvero a un passo da Botteghe oscure. Molti osservatori ritenevano che la svolta fosse vicina. Ancora un po' e pure il vecchio, glorioso Partito comunista sarebbe franato sotto il piccone del Pool.
C'erano grandi aspettative, ma anche enormi difficoltà. Per la struttura del partito e dei suoi quadri, gente all'antica che non era certo disposta a piegarsi davanti al vento di Mani pulite. I personaggi alla Greganti, per capirci, rimanevano in cella senza fiatare, alimentando leggende e voci di ogni tipo. Certo, non correvano come centometristi per raccontare a Di Pietro quel che sapevano e inguaiare qualcun altro come facevano i loro colleghi del pentapartito.
C'erano poi i rapporti complicati della Parenti con il resto del Pool: la pm, già alle prese con un contesto ostico, non godeva di grande simpatia e stima presso gli altri magistrati. Fuori le claque si dividevano: la Parenti veniva beatificata dai moderati, D'Ambrosio, da sempre icona della sinistra e in una futura seconda vita, anni dopo, parlamentare dei Ds, scaldava le platee dei compagni.
E poco importava che a proposito di piazza Fontana e della morte di Pinelli non avesse sposato la vulgata più facile che voleva l'anarchico vittima della violenza di Stato. Quell'intervista arrivò in testa alla pm come un missile. O almeno così la prese lei: qualche settimana dopo, incrociandola nel solito corridoio, fu lei a dirmi poche parole colme di sconforto: «Quell'articolo mi ha delegittimato».
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Chissà cosa replicherebbe D'Ambrosio che oggi purtroppo non c'è più e non può ribattere. Probabilmente la partita sarebbe finita allo stesso modo. Chissà. Alla fine gli assediati si salvarono e il partito pagò un prezzo tutto sommato accettabile alla grande tempesta: gli arresti decimarono la corrente dei miglioristi, scaricati come succursale dei corrotti del Psi. Il fronte orientale, che era stato fatale a Napoleone, lo fu anche a Mani pulite. E quella sconfitta, inattesa, raffreddò gli entusiasmi di una parte del Paese. Cominciava, fra divisioni e spaccature, un' altra storia che va avanti ancora oggi.
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