Fulvio Abbate per www.huffingtonpost.it
fulvio abbate con la sagoma di moana pozzi di mario schifano
C’erano una volta i selfie, c’erano una volta gli altri con cui mostrarsi. Di più: c’era una volta il mondo da condividere in uno scatto. Il COVID-19 mise fine alla frenesia verso questi ultimi, esatto, sì, cancellò la pratica stessa del selfie.
“Scusi, possiamo farci una foto insieme?” “Prego, ci mancherebbe”. Un selfie, nel tempo della presunta cordialità social, non si negava a nessuno. Perfino il papa era disposto a sorridere, a fare il segno di vittoria con le dita. Grazie, santità, lei è davvero gentile, rispondeva il beneficiato.
La fine dei selfie attenua, di più, mette in discussione, ma che dico, decapita il concetto stesso di “vicinanza”, quel presunto genere di prossimità. Prossimità, fisica, s’intende, sia tra persone con cui si ha familiarità, sia con lo sconosciuto famoso, celebre, assodato che i selfie hanno sostituito gli autografi nella nostra contemporaneità simultanea.
matteo salvini asia argento selfie
La tempia dello sconosciuto si accosta alla tempia della persona famosa, la tempia dell’amico si accosta alla tempia dell’amica e così via, in una manifestazione appunto di prossimità, di sorriso o smorfia complici. Vera o presunta. Fatto? Sì, fatto, ma facciamone un altro, per sicurezza.
Mettendo ora da parte ogni prevedibile considerazione sulla quarantena, sul contatto, sulla distanza da tenere tra individuo a individuo, se vogliamo per un attimo immaginare noi stessi in queste ore - immaginarci fotograficamente, s’intende - non abbiamo altra scelta che scorgerci da soli, come singolo soggetto, nello spioncino del cellulare, ma anche, e soprattutto, nello spazio del tempo, se è vero che mai come in queste settimane abbiamo dovuto fare i conti con il tema dell’attesa, dunque della solitudine. Il “tempo”, quasi come, un tempo, ripetizione necessaria, accadeva ai soldati di leva, sempre lì a interrogarsi: “…quanto manca all’alba”.
L’altro giorno, mentre mi trovavo al telefono con un’amica, Patty Pravo, intanto che ci raccontavamo l’uno dell’altro, e lei diceva di trovarsi in fila davanti alla farmacia nei pressi di casa, ecco che in sottofondo percepisco la voce di una sconosciuta rivolgersi a Nicoletta con queste esatte parole: “Scusi, ma lei è Patty Pravo, ci possiamo un fare un selfie?” La sua risposta: “Sì, signora, sono Patty Pravo però in questo momento sto al telefono con un amico”.
patty pravo in concerto al gay village foto di bacco (3)
IL SELFIE DI UN MIGRANTE CON PAPA BERGOGLIO
Un modo elegante, per nulla scostante, di replicare al paradosso di una richiesta inconcepibile in tempi di pandemia. Il selfie, l’ho detto già, ha sostituito l’autografo come certificazione assai economica dell’esistenza sociale in vita nel quotidiano dello spettacolo, grazie alla sua istantaneità, e così via fino a essere reso “sconsigliabile” per ragioni contingenti che non è neppure il caso di spiegare.
Un selfie, d’altronde, non si nega, meglio, non si negava a nessuno: prendete il caso di Matteo Salvini, pensate alla fila di persone in attesa di fare un selfie con lui prima e dopo ogni sua occasione pubblica, come solitamente accade a Disneyland con i pupazzi animati, tutti gratuitamente a disposizione dei visitatori ad esclusione di Mickey Mouse, per il quale occorrono invece alcuni dollari.
PAPA FRANCESCO CON KRISTIAN PAOLONI IL SALUTATORE
Non resta che immaginarci tutti e davanti al remoto autoscatto, da soli, in silenzio, a pensare chissà quanto farà ritorno a noi il tempo delle “foto di gruppo”. Chissà quando tornerà insomma il tempo dei selfie, chissà quando Kristian Paoloni, detto da se stesso Il Salutatore, tanto per citare una figura eponima del selfismo globale, un palmarès che può vantare da Bergoglio (cui impone di tenere in mano la sua nacchera a forma di manina) al Dalai Lama, potrà riprendere a mostrarsi al fianco di chi è famoso per poter dire a se stesso di esistere.
In assenza di tutto questo, mai come in questi giorni, si solleva come dispositivo salvifico il logo di Skype, con la sua incerta definizione, il sonoro non meno accidentato, i fermo-immagine improvvisi, quasi a rendere omaggio idealmente all’eternità del sarto Abraham Zapruder che a Dallas con la sua semplice 8 millimetri Bell & Howell ci ha fornito forse il documento visivo più chiaro della nostra contemporaneità.