Piergiorgio Odifreddi per “la Repubblica”
John Nash e la moglie Alicia sono morti sabato sera in un incidente stradale nel New Jersey, sbalzati fuori da un taxi che si è schiantato contro un guard rail. Stavano tornando a casa da Oslo, dove il matematico aveva ricevuto la scorsa settimana il premio Abel dalle mani del re di Norvegia, e aveva incontrato il campione del mondo di scacchi, il norvegese Magnus Carlsen.
Una morte straordinaria, analoga a quella della principessa Diana, per una coppia straordinaria, che era rimasta unita per più di mezzo secolo nella buona come nella cattiva sorte. Nash, una delle menti più brillanti del secolo, negli anni Cinquanta aveva avuto un inizio sfolgorante di carriera e ottenuto risultati memorabili in aree diversissime fra loro.
Risalgono appunto a quegli anni della giovinezza i lavori sulla teoria dei giochi, da un lato, e sulla teoria delle equazioni differenziali, dall’altro, che gli valsero in seguito il premio Nobel per l’economia del 1994 e il premio Abel per la matematica del 2015.
Nella teoria dei giochi, il suo massimo contributo è stato l’introduzione della nozione di «equilibrio di Nash»: la situazione in cui si trovano due giocatori che, dopo aver giocato le loro rispettive mosse, non hanno nulla da recriminare, perché avrebbero giocato la stessa mossa anche se avessero saputo in anticipo la mossa giocata dall’avversario.
Nash dimostrò al proposito un famoso teorema, secondo il quale in tutti i giochi a due persone si può sempre ottenere un equilibrio analogo. Una situazione descritta inconsapevolmente da Calvino in Se una notte d’inverno un viaggiatore , quando scrisse che «il meglio che si può ottenere nella vita è di evitare il peggio».
Presto però lo squilibrio della schizofrenia si impadronì della mente di Nash, sospingendolo su una strada ben diversa da quella del successo. Nash iniziò un calvario negli ospedali psichiatrici, in cui venne trattato con coma insulinici e altre cure invasive, che anni dopo lui stesso non esitò a definire “torture”.
Si isolò dal mondo e incominciò a vivere da barbone, aggirandosi come un fantasma nell’Università di Princeton. La moglie divorziò da lui nel 1963, ma nel 1970 lo riprese in casa nonostante la sua condizione, anche se i due si risposarono ufficialmente soltanto nel 2001. Quello stesso anno il film A beautiful mind li rese entrambi celebri come dei divi, ed essi iniziarono a girare il mondo: sempre insieme, e a volte accompagnati dal figlio, schizofrenico come il padre.
Io lo conobbi poco dopo, il 13 ottobre 2003, quando andai a trovarlo a Princeton per intervistarlo. Ci aveva messi in contatto Harold Kuhn, uno dei pochi amici e colleghi che gli erano stati vicini anche durante la sua malattia, e che nel film si vede comunicargli in anticipo l’assegnazione del premio Nobel: un procedimento irrituale, deciso a Stoccolma per evitargli un annuncio che avrebbe potuto turbarlo e agitarlo. nella sua condizione di ancora parziale recupero dalla malattia.
Era un uomo riservato e schivo, quasi impaurito dai contatti umani e con qualche difficoltà ad affrontare le situazioni normali della vita: paradossalmente, per eccesso di razionalità. Passammo vari minuti a decidere se lasciare la borsa nella hall oppure nella biblioteca dell’Istituto per gli Studi Avanzati, dove aleggiavano gli spiriti di Albert Einstein e di Kurt Gödel, o se invece portarla con noi nel ristorante. E la scelta di cosa ordinare a pranzo dovette attendere una minuziosa analisi preventiva, sui vantaggi e gli svantaggi di ciascuna portata.
L’uomo ispirava però tenerezza e affetto, e la conversazione toccò non soltanto aspetti tecnici legati ai suoi teoremi giovanili e ai suoi studi attuali, ma anche le sue traversie psicologiche e psichiatriche. Con una certa sorpresa di Kuhn, che quando vide la trascrizione dell’intervista disse che avevo avuto la fortuna di trovare il modo giusto per farlo parlare di cose sulle quali rimaneva normalmente riservato e reticente.
Fu così che restammo in contatto e col tempo diventammo amici, per quanto possano esserlo due persone così ovviamente diverse nel valore scientifico e nell’esperienza umana. Nel 2006 tornai a trovarlo a Princeton. Mi venne a prendere alla stazione del treno in auto, col suo berretto di lana, e per tutto il viaggio enunciò dichiarativamente le azioni che stava per compiere performativamente: «Ora parto. Ora ingrano la marcia. Ora giro a sinistra. Ora stiamo arrivando…».
Quando tenemmo i tre Festival di Matematica a Roma, dal 2007 al 2009, Nash ci fece il regalo di venire ogni volta, e le nostre conversazioni pubbliche rimangono per me tra i momenti più significativi di quell’esperienza. Appena arrivato la prima volta, entrò in albergo con la macchina fotografica spianata e prese a fotografare tutti noi, incurante del fatto che il divo era lui. Io gli suggerii di non dare interviste prima della serata conclusiva, per non rovinare la sorpresa del pubblico, e quando gli chiesi un giorno se potevamo andare alla radio per un’anticipazione, mi rispose laconico che gli era stato proibito.
Un episodio divertente successe al Quirinale nel 2009, quando portammo cinque premi Nobel e una medaglia Fields in visita al presidente Napolitano. Una sua domanda di cortesia scatenò una specie di miniconferenza ai massimi livelli, alla quale Nash partecipò con alcune delle sue osservazioni spiazzanti, fino a quando il presidente la concluse diplomaticamente dicendo: «Be’, ci avete fatto una bella lezione!».
Nel 2010 andammo a New York per Repubblica e L’Espresso, a registrare con Nash uno dei venti Dvd di scienza della serie Beautiful Minds, che si ispirava nel titolo proprio all’espressione indissolubilmente legata al suo nome. In quell’occasione passammo un’intera giornata con lui, che si intrattenne poi cordialmente a cena con gli operatori.
Anche se ci diede un po’ di filo da torcere nella registrazione, perché esaurì in dieci minuti la lista delle domande che avevo preparato, dando risposte concise e stringate, e mi costrinse a fare i salti mortali per riuscire a farlo parlare di vari argomenti per il tempo richiesto di un’ora.
L’ultima volta che l’ho visto è stata il 30 settembre del 2013 a Bergamo, per una conferenza di nuovo organizzata dall’Iseo. Passammo una giornata con lui e l’amico Gianfranco Gambarelli, un teorico dei giochi che l’ha a sua volta invitato parecchie volte in Italia. Parlammo della lettera che Benedetto XVI mi aveva inviato, e quando tornò a casa mi inviò una mail nella quale paragonava il papa a San Nicola e me a Thomas Huxley, il “mastino di Darwin”, dicendo che non potevo vincere quel genere di disputa, ma che «la situazione sembrava colorita e stimolante».
L’ultima volta che l’ho sentito, invece, è stata il 26 marzo scorso, quando mi scrisse di aver ricevuto una telefonata a sorpresa da Oslo in cui si annunciava che gli era stato assegnato un premio Abel “di seconda categoria”: il suo modo per lamentarsi di dover condividere una somma che, purtroppo, non gli sarebbe servita a molto neppure intera. Quel premio gli è stato fatale, ma gli ha permesso di morire avvolto dall’abbraccio della comunità dei matematici. E l’incidente l’ha portato via tragicamente, ma gli ha evitato la sorte peggiore di un lungo e triste declino.