Paolo Colonnello per “La Stampa”
ILDA BOCCASSINI LA STANZA NUMERO 30
Terminate le 343 pagine di queste «cronache di una vita» di Ilda Boccassini, raccontate dall'ex magistrato con una sincerità al limite dell'autolesionismo, viene da chiedersi: perché? Perché questa donna, ormai settantenne, invece di essere ringraziata per aver catturato gli assassini del giudice più amato dagli italiani, ogni volta che parla o che scrive, suscita scandalo?
Perché, invece di essere portata in giro per le scuole a spiegare quanto sia difficile e impervia la strada della legalità, viene insultata e presa in giro per le sue intemperanze o per quel candore quasi adolescenziale con cui rivela, «giovane e flessuosa», di essersi innamorata di Giovanni Falcone?
L'ultima bordata, è arrivata proprio dalla sorella di Falcone, Maria, che ieri su La Sicilia, ha scritto: «Sembra si sia smarrito ormai qualunque senso del pudore e del rispetto prima di tutto dei propri sentimenti (che si sostiene essere stati autentici), poi della vita e della sfera intima di persone che, purtroppo, non ci sono più, non possono più esprimersi su episodi veri o presunti che siano e che - ne sono certa - avrebbero vissuto questa violazione del privato come un'offesa profonda...».
L'unica risposta possibile al putiferio sollevato da Ilda la rossa è che Boccassini, anche adesso, rimane una donna fuori dagli schemi, lontana dal potere politico e dallo stesso potere giudiziario cui è appartenuta, e che ha sempre ferocemente criticato. Per capirlo bisogna leggerlo fino in fondo questo libro, La stanza numero 30 (ed. Feltrinelli), che la racconta nel ruolo, unico e irripetibile, avuto nella lotta al crimine in Italia. Un ruolo scomodo, privo di compromessi, ma non di umanità e talvolta di una sensibilità esasperata, ben distante dall'immagine pubblica di donna dura e spietata.
Tutto ciò nonostante alcune omissioni (chi fu a far vedere al giornalista D'Avanzo in anteprima i verbali del boss pentito che parlava di Berlusconi mettendo così a rischio un'indagine delicatissima? Ilda lo sa, ma non lo scrive) o denunce tardive, tipo quella sull'indebita pressione dell'ex capo della polizia De Gennaro per farla desistere sempre da un'inchiesta su Berlusconi.
Stare vicino alla donna che ha sgominato le cosche più feroci e insidiose, a Milano come a Palermo, che ha rivelato lo squallore prostituivo di certe «cene eleganti», così come la corruzione dei magistrati della capitale (caso Squillante), non è mai stato semplice per nessuno.
Perché Ilda non è mai stata capace di fare sconti nemmeno a sé stessa: «Non nego di aver contribuito a dare di me un'immagine pubblica che so diversa da quella reale - scrive a pagina 106 -. Insomma, per difendermi ho indossato una maschera che con il tempo è diventata la mia faccia, ho lasciato che si ricamasse sul mio essere una donna severa, poca incline ai sentimenti, tutta codice e tintinnio di manette. Sgradevole? Forse, a volte».
Critiche e gustose prese in giro della vanità altrui (la descrizione di Giancarlo Caselli, in trasferta negli Usa per interrogare un mafioso, che chiede alla scorta Fbi di fermarsi davanti a un supermercato per comprare la lacca per i capelli è strepitosa) e della propria (dal parrucchiere ai tailleur scelti per partecipare ai processi), non mancano. C'è il giudizio severo per le «non scelte» del procuratore di Milano Francesco Greco; e la critica dura al procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri («Si vantava sulla conoscenza della 'ndrangheta, creava tensioni»).
Ma in realtà è il racconto inedito delle sue paure, della solitudine, delle tecniche investigative, degli incontri con boss mafiosi come Buscetta o Cangemi, a colpire. C'è il fastidio per l'esibizione mediatica della giustizia, come avvenne per la cattura di Giovanni Brusca, il boss della strage di Capaci. «Le scene di giubilo a volto coperto e con i mitra fra le mani evocavano gli Stati totalitari, dove non c'è spazio per giustizia e legalità».
Claudio Scajola con la figlia e moglie
Pagine che scorrono veloci e raccontano in definitiva la storia il più delle volte dolorosa di una donna che, come tante altre, ha sofferto sulla propria pelle l'impegno professionale che ha anteposto, dilaniandosi, alla famiglia; e che ha pagato duramente, in termini di carriera, essere stata brava e coraggiosa. Poco amata dai colleghi, invisa al mainstream giornalistico, detestata apertamente dal Potere, che tentò di delegittimarla in ogni modo fino a toglierle la scorta, decisione caldeggiata dall'allora ministro degli Interni Claudio Scajola (governo Berlusconi).
Boccassini, come un altro suo illustre collega, Gherardo Colombo, ha «il vizio della memoria», con cui ricorda, ad esempio il dimenticato ed esplosivo verbale del boss pentito Salvatore Cangemi: «Una cosa è certa - dice il pentito - e corrisponde al cento per cento a verità: Riina era in contatto con Dell'Utri e quindi con Silvio Berlusconi» che versava ai "cortonesi" 200 milioni di lire all'anno in contanti.
No, non è stato semplice combattere la mafia stragista indossando non di rado tacchi a spillo e orecchini, circostanza intollerabile per gli ayatollah di Cosa Nostra e la loro becera cultura maschilista. «Nonostante la mia esperienza, negli ultimi 30 anni nessun Parlamento ha mai chiesto la mia consulenza». L'amarezza è sconfinata ma la voglia di riprendersi la vita, anche. «L'isolamento, la profonda incertezza del domani, la paura di morire, hanno sprigionato in me una smisurata voglia di vivere». E' il karma di chi ha imparato a risorgere. -