Estratto dell’articolo di Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera”
Pasquale Angelosanto - cattura di matteo messina denaro
Nel brindisi di saluto alla vigilia della pensione, il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo ha spiegato che il generale Pasquale Angelosanto è noto a tutti per essere il comandante del Ros che ha catturato Matteo Messina Denaro, ma per lui resta e resterà sempre il giovane capitano dei carabinieri che trent'anni prima arrestò il boss della camorra Carmine Alfieri. L'alfa e l'omega di una carriera spesa quasi tutta nei reparti anticrimine e territoriali dell'Arma, che – compiuti 65 anni d'età – si concluderà domani, martedì 31 ottobre.
Se la ricorda la cattura di Alfieri, generale Angelosanto?
«E come potrei dimenticarla? Lo prendemmo l'11 settembre 1992, e sebbene fosse ricercato — da nove anni — solo per il lotto clandestino, sapevamo che era diventato il capo della camorra vesuviana. Dopo aver vinto, con la Nuova Famiglia, la guerra contro la Nuova camorra organizzata di Raffele Cutolo».
Come arrivaste a lui?
«Pasquale Galasso, il boss suo vecchio alleato arrestato nel maggio 1992, pensava di essere stato tradito da Alfieri, avendo avviato grandi investimenti da chi credeva avrebbe voluto escluderlo. Si vendicò indicandoci un possibile rifugio nel comune di Scisciano, in un contesto criminale che già conoscevamo bene. S'era nascosto in un bunker sotterraneo, e quando cominciammo a rompere il pavimento con le mazze da carpentiere sentimmo la sua voce che chiedeva di smettere».
Anche quella, come trent'anni dopo per Messina Denaro, fu un'operazione segretissima per evitare fughe di notizie?
«All'epoca comandavo il Nucleo operativo del Gruppo di Castello di Cisterna, e organizzai la spedizione senza dire nulla sull'obiettivo. Prima con i furgoni andammo da tutt'altra parte e solo dopo, quando non si poteva più comunicare con l'esterno, feci il nome di Alfieri. Tra i miei uomini, scoprimmo poi, c'era un carabiniere corrotto che dava informazioni ai clan».
Era l'anno delle stragi di mafia, Capaci e via D'Amelio.
«Un periodo di grande tensione e pressione, ma anche di grande impegno e spinta ideale. Nelle bacheche delle caserme c'erano i nomi e le foto segnaletiche dei latitanti, elenchi lunghissimi: quasi tutti i capi di Cosa nostra, camorra e 'ndrangheta. Nell'ottobre '92 arrivai al Ros per comandare la Sezione Catturandi, e fui aggregato a Napoli. Si lavorava secondo il metodo dalla Chiesa, che seguiamo ancora oggi. Alcuni ufficiali nostri comandanti ei marescialli che avevano lavorato con il generale ai tempi del terrorismo, ci fecero da maestri».
In che consiste, il metodo dalla Chiesa?
«Studio approfondito del contesto, per inquadrare il singolo delitto nell'ambito in cui è maturato. E tecniche investigative applicate sul territorio: osservazione, controlli e pedinamenti, a cui si sono aggiunte le intercettazioni e altre attività tecniche. Solo così, nel terrorismo come nella criminalità organizzata, si riesce a venire a capo degli omicidi ea prendere i latitanti. Ci vuole tempo e tanta pazienza, ma alla fine i risultati arrivano».
A Napoli continuò a occuparsi di camorra.
«Sì, e con le altre forze di polizia e la Procura scopriamo il mondo degli affari e dei rapporti diretti con la politica. E quando i primi pentiti cominciarono a indicare i responsabili degli omicidi o le persone che “tenevano” i latitanti, noi avevamo già i riscontri necessari grazie alle indagini svolte sul contesto criminale. Di fatto loro aggiunsero solo i nomi. Poi nel 1995 approdai alla Sezione anticrimine di Roma».
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Poi tornarono le Brigate rosse.
«Fu un brusco risveglio. La mattina del 20 maggio 1999, la scena dell'omicidio del professore Massimo D'Antona indicava un agguato di matrice terroristica senza che ci fossero organizzazioni in attività da oltre dieci anni. Ma nel pomeriggio arrivò la rivendicazione delle Br-Partito comunista combattente, e fummo costretti a misurarci con la realtà. Rispolverammo le indagini sui piccoli attentati consumati nel decennio precedente, anche dai Nuclei comunisti combattenti che s'erano appropriati della sigla Br-Pcc per tornare a uccidere. Pure in quel caso fu importante l'analisi del contesto».
Però sbagliaste obiettivo, arrestando persone che non c'entravano con le Br.
«Gli errori purtroppo si commettono, e bisogna riconoscerli. Per oltre un anno seguimmo un soggetto che aveva incontrato semi-clandestini con un altro che credevamo di riconoscere in un vecchio brigatista latitante. L'ordinanza di custodia cautelare riguardò i suoi presunti contatti romani che gravitavano intorno al gruppo Iniziativa comunista, ma sbagliammo perché quello non era il latitante e tra di loro non c'erano i nuovi terroristi. [...]
GIORGIA MELONI PASQUALE ANGELOSANTO
Dopo l'esperienza nel servizio segreto e la parentesi calabrese, è tornato al Ros, di cui è divenuto vicecomandante nel 2012. È lì che ha iniziato a occuparsi di Cosa nostra?
«Qualche ramificazione l'avevo già indagata nella Capitale, arrestando due epigoni della “decina romana” di Pippo Calò».
Prendeste subito di mira Matteo Messina Denaro?
«Era in cima alla lista dei ricercati, latitante da vent'anni.
Pur nel suo caso è stato fondamentale investigare sul contesto e fare “terra bruciata” degli affiliati che gli ruotavano intorno. Noi come Arma, da soli o con altre forze di polizia, abbiamo arrestato più di 180 indagati e sequestrato beni per oltre 250 milioni. Queste cifre, cui vanno aggiunte quelle delle operazioni autonome delle altre polizie, dimostrano come lo Stato abbia ripreso il controllo del territorio nella provincia di Trapani».
Però Messina Denaro era lì indisturbato, e la svolta per catturarlo, con lei a capo del Ros dal 2017, è arrivato da un pizzino nascosto in casa della sorella. Il 6 dicembre 2022.
«Certamente, ma l'accesso a casa della sorella non fu casuale, bensì una decisione, presa insieme alla Procura, derivante dall'analisi svolta sulle numerose indagini, tra cui l'ultima che portò a 35 arresti, proprio a Campobello di Mazara, nel settembre 2022».
Come ha vissuto quel mese e mezzo tra la scoperta del pizzino e la cattura?
«Male. Con la continua paura di commettere errori. Persino durante la messa di Natale non potei evitare di pensare alle mosse da seguire per non farci sfuggire il latitante. Ci stavamo avvicinando, ma bisognava evitare il minimo sbaglio. Negli ultimi tre giorni avevamo quasi la certezza che dietro il nome di Andrea Bonafede ci fosse Messina Denaro, ma finché lui non ha ammesso di esserlo non sono stato tranquillo».
Che cosa ha provato in quel momento?
«Una soddisfazione indescrivibile, insieme all'improvviso calo di tutta la tensione accumulata».
Come quando arrestò Carmine Alfieri?
«Direi di sì, la stessa emozione per aver raggiunto un risultato tanto cercato. Poi però, in entrambi i casi, dopo qualche ora è iniziato il nuovo lavoro, per ricostruire le reti delle complicità».
Su quella di Messina Denaro ora toccherà ad altri indagare.
«E lo faranno benissimo. Ma una promessa posso farla anch'io: tra chi ha protetto per tanti anni il latitante abbiamo individuato solo la cerchia più ristretta, c'è ancora tanto da scoprire. Sempre con lo stesso metodo. Il Ros non se ne andrà dalla provincia di Trapani».
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