Flavio Pompetti per “il Messaggero”
«Un epilogo così drammatico avrebbe potuto essere evitato». Il fondatore dell'Eurasia Group Ian Bremmer riflette con occhio critico sulle recenti decisioni che hanno portato l'amministrazione Biden ad abbandonare l'Afghanistan nelle mani dei gruppi talebani
In cosa ha sbagliato l'amministrazione Usa?
«L'errore è stato ordinare una revisione unilaterale della strategia, e assumersi il peso delle decisioni che ne sono seguite senza dividerlo con gli alleati, in particolare il Canada. La rotta del ritiro era segnata dalla svolta dell'amministrazione Trump, e Biden non aveva un grande margine di manovra.
Ma la missione militare era una missione congiunta, e sarebbe stato giusto condividere la strategia dell'esecuzione, perlomeno per evitare di offrirsi agli occhi del mondo come i responsabili dell'attuale tragedia che si sta consumando. Abbiamo mandato Kerry in Cina a parlare di clima. Perché non ha discusso anche di Afghanistan?
ELICOTTERO AMERICANO SOPRA L AMBASCIATA DI KABUL
Come minimo avremmo potuto chiedere loro che dislocassero dei loro osservatori nel Paese, per proteggersi dalla pressione dei profughi afghani che si stanno ammassando ai confini del Tajikistan con la Cina».
Questa crisi chiude un ciclo di vent' anni ed è giusto riflettere in chiave storica. A cosa sono serviti gli 87 miliardi di dollari e le 2.300 vite di soldati Usa?
«Lo sforzo della ricostruzione è stato genuino da parte della coalizione. Ha fornito al Paese infrastrutture che non aveva mai avuto prima e ha aperto gli occhi di molti cittadini a concetti di libertà e di democrazia che sono stati ben apprezzati. D'altra parte la corruzione è stata sempre altissima e molti degli sforzi sono vanificati. Per quanto riguarda gli Stati Uniti e l'Occidente questo epilogo è comunque la conferma che la pretesa di fare un'operazione di state building (ricostruzione pilotata, ndr.) con le armi in pugno non sarà più percorribile in futuro».
Le città cadono una dopo l'altra, si parla di decapitazioni e della fame che affligge i bambini. Che ripercussioni hanno queste immagini di una sconfitta per Joe Biden?
«Poche in campo domestico. La stragrande maggioranza degli statunitensi non ne poteva più di questa guerra, e l'attenzione alle notizie drammatiche che arrivano dall'Afghanistan è minima negli Usa.
Sbaglia chi paragona la situazione attuale alla resa di Saigon perché l'investimento emotivo per noi è minimo. Il contraccolpo è maggiore nei paesi nemici, dove i governi dell'Iran, della Russia e della Cina hanno gioco facile nel rilanciare l'immagine degli Usa perdenti perché ormai deboli e decaduti».
Lei ha menzionato la Cina. Sarà il prossimo protagonista in Afghanistan?
«Pechino ha solo remoti motivi per temere un governo talebano a Kabul. Ha piuttosto un interesse strategico a inserire il Paese nel suo disegno delle vie della seta. Un intervento cinese in Afghanistan avrà la forma del soft power, con l'offerta di fondi e della costruzione di opere infrastrutturali».
Un governo talebano offre un nuovo spazio al terrorismo jihadista?
«Certamente, e non solo per via dell'affinità ideologica. Il vero problema è che i talebani non hanno oggi il controllo delle regioni settentrionali del paese, e probabilmente non lo avranno nemmeno in futuro, il che rende l'equilibrio politico instabile e vulnerabile.
Questo non è però un problema pressante per l'amministrazione di Washington come lo è stato in passato. La vera minaccia terroristica per gli Stati Uniti oggi viene dal fronte interno: è seria e incalzante. Sarà invece l'Europa a doversi preoccupare delle conseguenze di una eventuale ricostruzione del polo del terrore, con base in Afghanistan».
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