Paolo Russo per “la Stampa”
«È incredibbile, ma ho ancora dificoltà a scrivere». Quello che è capitato di leggere a un'insegnante di terza elementare nella romanissima Trastevere è più o meno quello che è passato sotto agli occhi di tanti suoi colleghi a Nord e ancor più a Sud.
«Gli alunni delle elementari sbagliano le doppie, non capiscono i testi e fanno fatica a esporre quanto hanno appreso», dicono quasi all'unisono i dirigenti scolastici della scuola primaria.
Ma la Caporetto della scuola post-pandemia è anche nelle aule delle medie e delle superiori, come ci raccontano i Presidi tirando le somme degli scrutini in corso. E come confermano le indagini ampie e metodiche di Invalsi, l'Istituto per la valutazione del sistema educativo che fa capo al ministero dell'Istruzione.
I dati inediti, presentati a un seminario interno a fine maggio da Patrizia Falzetti, responsabile della ricerca valutativa, la dicono lunga sul ritardo formativo che due anni e mezzo di dad e lockdown hanno finito per ampliare, accentuando una discesa che in verità parte da più lontano. E la scuola pubblica è messa peggio di quella privata. Valutando livelli di apprendimento, abbandono scolastico e capacità di portare a termine i programmi, il 14,6% delle scuole elementari presenta situazioni definite «di fragilità», ma la quota sale al 18% se si considerano solo quelle pubbliche. Alle medie in difficoltà si trova il 21,4% degli istituti, il 24,2% considerando solo le scuole statali. Ma va molto peggio alle superiori, dove in posizione di fragilità, a volte marcata, si trova il 25,6%, percentuale che sale però al 44% considerando solo il pubblico.
Ma al divario tra i vari livelli di istruzione e del pubblico rispetto al privato, si somma poi quello tra Nord e Sud, che emerge dai dati sulla «dispersione implicita», i ragazzi che dalle superiori escono con lo stesso livello di preparazione che avevano quando ci sono entrati, lasciando la terza media. Senza aver fatto mezzo passo avanti era il 7% degli studenti nel 2019, prima della pandemia, percentuale salita al 9,5% due anni dopo.
Un aumento del 2,5% che è però del 14,8% al Sud, con punte di dispersione implicita del 25% in Calabria, del 20% in Campania, del 16,5% in Sicilia, del 15% in Sardegna. Percentuali in salita ovunque, con le sole eccezioni di Valle d'Aosta, Piemonte, Trentino, Friuli Venezia Giulia, Molise e Basilicata. Ci si potrebbe chiedere perché trattenere ragazzi che non hanno alcuna voglia di studiare. «I presidi mi dicono che almeno così evitano di abbandonarli alla strada a fare chissà cosa», è la risposta eloquente della Falzetti.
All'abbandono implicito di chi resta ma non apre libro c'è poi quello materiale di chi esce dal portone scolastico per non rientrarci più.
Il tasso di abbandono precoce rilevato dall'Istat è del 13%, pari a 543 mila studenti, fra i più alti d'Europa. Ma al Sud si va dal 15 al 19%.
«Le assenze sono aumentate moltissimo. Molti bambini e adolescenti prolungavano la quarantena e abbiamo dovuto fare un grande sforzo per convincere i genitori a farli rientrare. Da sempre combattiamo contro il fenomeno dell'abbandono scolastico e purtroppo per alcune famiglie disagiate la pandemia è diventata un alibi per togliere i figli dalla scuola», racconta Daniela Pes, preside dell'istituto comprensivo, con scuola dell'infanzia, elementare e media, in una periferia difficile come quella del quadrante occidentale di Napoli. «Negli scrutini non li abbiamo voluti penalizzare ma le carenze ci sono e sono aumentate.
Quella che dobbiamo recuperare però non è tanto la capacità cognitiva, ma l'autostima che l'isolamento ha fatto crollare».
«Durate la valutazione ci siamo resi conto che rispetto allo scorso anno la situazione non è migliorata, soprattutto tra i ragazzi del terzo», ammette Tiziana Sallusti, preside dello storico liceo romano «Mamiani».
«Agli scrutini, i primi diciamo normali dopo due anni un po' finti, la sensazione è che siano in aumento i rimandati e i non ammessi», racconta a sua volta Giovanni Poggi, preside dell'istituto superiore «Vittorio Emanuele II-Ruffini» di Genova. «Vediamo che i ragazzi memorizzano tutto grazie anche alla dimestichezza con i mezzi informatici, ma quando poi si tratta di elaborare queste informazioni, scrivere un testo, arrivano i problemi, a volte enormi.
La matematica poi è una bestia nera da sempre, ma adesso va ancora peggio». Il vero problema secondo Poggi però è il disagio psicologico. «Per quello dobbiamo lavorare nella formazione del corpo docente, per recuperare quell'empatia indispensabile a rimotivare i ragazzi». E far sì che la generazione Covid non vada perduta.
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