Fabrizio Maria Barbuto per “Libero Quotidiano”
Un esubero di 173 detenuti, eppure Marco Prato, criminale dalla personalità proclive al suicidio, fu trasferito proprio a Velletri, dove non gli sarebbe stata certamente garantita la sorveglianza necessaria a scongiurare il peggio. Perché nessuno esige risposte in merito? Non la famiglia, non la società.
Tanto Marco era solo un mostro che meritava di morire, poco importa se, ad uccidersi, sia stato lui. È così che la pensano gli innumerevoli utenti del web, i quali hanno già emesso sentenza prima degli organi competenti, come consuetudine nell' era digitale.
Il Lazio si distingue per un triste primato in campo carcerario, "vanta" infatti le prigioni più straripanti della penisola, le quali superano in molti casi la capienza regolamentare. Come sostiene lo stesso garante dei detenuti Mauro Palma, quella di Velletri non era la struttura idonea a ospitare Prato e supportarlo nei suoi squilibri emotivi.
L' uomo si è espresso sulla morte del ragazzo definendola un "suicidio annunciato", ma c' è perfino chi ipotizza il "suicidio assistito". Ad opera di chi? È davvero da considerare l' eventualità che qualcuno abbia agito sottobanco affinché l' assassino venisse trasferito lì dove gli fosse più facile dare riscontro al suo proposito di farla finita?
È possibile che questa fosse una delle ultime volontà di Prato, o esse erano solo quelle trascritte sul foglietto testamentario ritrovato in cella al suo decesso, in cui pregava che alla sua salma venisse rigenerata la chioma e messo lo smalto rosso?
Il caso Varani sembrava risolto con la cattura degli assassini del povero Luca, ma ora che uno di essi si è tolto la vita in circostanze non del tutto chiare, la sua trama si infittisce più che mai.
TENTATIVI FALLITI
«Aveva tentato il suicidio più volte, Marco, ma nonostante fossimo amici, l' ho scoperto solo dalle ricostruzioni tv» a parlare è Alfonso Stani, noto pr della capitale che conosceva bene Prato, e che dopo il delitto Varani ne ha cancellato ogni forma di rispetto e affezione.
«Sprizzava vita da ogni poro, e venire a conoscenza delle sue manie suicide mi ha sorpreso quasi quanto scoprirlo assassino. Gli hanno fornito molte attenuanti, e tra queste c' è la droga, ma essa può solo amplificare la natura di un uomo, non le fa prendere un altro corso».
I tentativi di togliersi la vita operati da Prato, forse, si sono sempre rivelati fallimentari perché morire non era davvero il suo proposito, attaccato com' era alla materialità di quella vita che celebrava a ritmo accelerato, senza mai avere del tutto imparato a gestire un disordine emozionale che lo portò a eccessi di ogni tipo: sesso promiscuo, alcool a profusione e droghe pesanti.
MARCO PRATO - LUCA VARANI - MANUEL FOFFO
Fino al più tragico di tutti: l' omicidio di Luca Varani, perpetrato assieme al suo complice-amante Manuel Foffo, con centosette coltellate.
LATO OSCURO
«Le reciproche nature perverse si sono fomentate, e dalla loro fusione è scaturito il peggio» asserisce Stani, il quale, da persona che conosceva uno degli assassini e la sua indole suggestionabile, si dice certo che le responsabilità del crimine spettino solo al 10% a Prato: «Sì, aveva una personalità complessa e a tratti torbida, ma nessuno avrebbe mai familiarizzato col suo lato oscuro se qualcuno non si fosse impegnato a portarlo in superficie.
Lui voleva essere Dalidà, e in Foffo aveva trovato il suo Luigi Tenco». Prato aveva infatti una vera e propria ossessione per la cantante francese della quale, ogni anno, celebrava sul suo profilo Facebook data di nascita, di morte e tappe di vita salienti.
I suoi post pubblici terminavano sempre con la dicitura «applausi», come a esprimere le sue smanie autocelebrative e quel narcisismo distruttivo dal quale appariva permeato, che, nonostante la sua omosessualità dichiarata, lo portò perfino a intrecciare relazioni con soubrette e donne dello spettacolo, pur di sfilare sui red carpet capitolini.
marco prato con flavia vento e nadia bengala
Il suo suicidio ancora avvolto nel mistero si è svolto proprio con la stessa spettacolarità di uno dei suoi tanti post su Facebook: un decalogo di cose da fare dopo la sua morte e l' invito agli amici di continuare ad ascoltare Dalidà anche al posto suo.
E nonostante l' intero scritto si concluda con l' addio alla famiglia, è tutto così lezioso e studiato a tavolino che sembra quasi avercela messa anche lì, da qualche parte, quella consueta esortazione: «Applausi».
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