Carlo Bonini per “la Repubblica”
Iniziato a novembre dello scorso anno, il processo Mafia Capitale ha superato le 60 udienze e, ieri, ha girato la boa che normalmente segna la metà del cammino di un dibattimento. La fine dell’esame dei testi della pubblica accusa, l’avvio di quelli delle difese. Il Tribunale ne ha ammessi 1.070. Ce ne sarà, nella migliore delle ipotesi, ancora per sei mesi. Quindi, per la fine dell’anno, l’esame degli imputati, le richieste della Procura, le arringhe e la sentenza all’inizio del 2017.
Sei mesi, in sé, non sono affatto un tempo lungo. Al contrario, considerando i tempi medi della Giustizia. E tuttavia, a Roma, sembrano oggi un’era geologica. Al punto che quella parola — “Mafia Capitale” — suona improvvisamente polverosa, consumata.
La rapidità e la separatezza, anche geografica (l’aula bunker del carcere di Rebibbia dove si celebra il dibattimento è a 20 chilometri dal centro della città), con cui il processo è stato prima anestetizzato nella percezione collettiva e quindi frollato nel languido disinteresse dell’opinione pubblica (i giornalisti in aula doppiano regolarmente la presenza del pubblico, mai più di una decina di anime vive), l’idea che il “lavacro elettorale” con una nuova sindaca e una nuova maggioranza abbiano mondato il problema e consegnato la faccenda agli archivi (quale che ne sia l’esito giudiziario) hanno senza alcun dubbio molto a che vedere con il genius loci (Roma digerisce da millenni papi e re, figurarsi Salvatore Buzzi e Massimo Carminati) e con il suo lessico (il dialetto siciliano e campano dell’intimidazione non strappa il sorriso complice che si concede all’intercalare di un feroce coatto romano), ma non spiegano tutto.
La verità, come spesso accade, ha il colore grigio della palude che, in questi sei mesi, ha trasformato l’inchiesta prima, e il processo poi, da «momento di svolta », nella lettura dei fenomeni criminali di Roma, del nesso tra la Strada e il Palazzo (il Mondo di Sotto e il Mondo di Sopra) in «eccezione». E quella palude ha un nome. È il ritorno di una quieta routine giudiziaria che evidentemente ha vissuto e vive, nella sua pancia, una crisi di rigetto per il lavoro della Procura “del siciliano” Pignatone, dei suoi aggiunti, dei suoi sostituti. Evidentemente percepito come un avventuroso quanto “abusivo” salto in avanti.
MAFIA CAPITALE - FERMO IMMAGINE DA UN VIDEO DEI ROS
La sentenza di appello che qualche settimana fa ha fatto cadere l’imputazione mafiosa nel processo al più ramificato e feroce clan (Fasciani-Spada) del litorale, quello che, dopo la dissoluzione della Banda della Magliana, ha controllato per trent’anni, con mano militare, Ostia (Municipio di Roma sciolto per “mafia” meno di un anno fa e non remota ridotta siciliana o calabrese), riducendo la faccenda a storia di “banale” associazione per delinquere, è il sintomo di quel “ritorno alla normalità” che è il vero Convitato di Pietra non solo del processo “Mafia Capitale”, ma delle decine di procedimenti pendenti che, da soli, nulla dicono della “mafiosità” della città. Ma che, letti insieme, la documentano. Per dirne una.
Nessuna cronaca ha avuto tempo di annotare come nel passaggio dal primo al secondo grado, le condanne per stupefacenti ai fratelli Fabretti, principali broker delle piazze di spaccio della città, uomini del boss camorrista Michele Senese, si siano ridotte di due terzi. In ragione di una prassi che, come si evince dalle statistiche giudiziarie, vuole che, a Roma, nei processi di Appello, la pena venga ridotta di default. Come se lo “sconto” fosse un gesto di dovuta e innocua clemenza.
Privo di qualunque continuità culturale e di approccio metodologico, svuotato di ogni memoria, il «discorso giudiziario» sulla specificità “mafiosa” della città, al netto di pochi “pionieri”, si muove in uno spazio dove tutto è possibile. Perché, una volta decontestualizzate, le storie criminali dei singoli, delle famiglie, godono dello sguardo naive di collegi giudicanti agli occhi dei quali ogni volta si ricomincia da zero. Come accadeva nella Sicilia degli anni ’60 di fronte alla mafia.
Non c’è allora da stupirsi perché un tipo come Roberto Grilli, narcotrafficante a piede libero, decida di ritrattare il suo pentimento di fronte all’intimidazione mafiosa che una figura come Carminati e chi intorno gli si muove sono in grado di esercitare. In una città in cui un signore come Carmine Fasciani può serenamente chiudere il conto di vent’anni di traffici con dieci anni di reclusione (erano 28 in primo grado) e dunque contare di uscire dal carcere (tra custodia cautelare scontata e liberazione anticipata rispetto alla fine pena) di qui ai prossimi 24, 36 mesi, lo Stato dimostra di non avere nulla da offrire.
Non tanto un programma di protezione testimoni. Quanto, più banalmente, la coerenza di mettere nelle condizioni di non nuocere per un tempo congruo chi è stato riconosciuto responsabile di reati che della Mafia sono indizio se non, spesso, la prova.