Gabriele Rosana per "Il Messaggero"
I talebani non si fermano più. Nell'Afghanistan ricaduto nella morsa dei miliziani fondamentalisti dopo il graduale ritiro delle truppe della Coalizione internazionale iniziato a maggio, continua l'offensiva degli insorti: partita dalle zone rurali del Paese, adesso l'avanzata travolge anche i centri urbani, mentre gli Usa tornano a negoziare e l'Ue teme nuovi importanti flussi di migranti.
Dopo un assedio che andava avanti da venerdì, ieri Farah, nel sudovest del Paese, è stata la settima provincia (su 34) a cadere nelle mani dei talebani in meno di una settimana.
Le forze governative sono con le spalle al muro e il cerchio si stringe anche attorno alla seconda e alla terza città dell'Afghanistan, Kandahar e Herat. Secondo un alto funzionario della Commissione europea, l'effetto domino sarebbe inevitabile: «I talebani controllano già il 65% del Paese, minacciano di conquistare altri 11 capoluoghi di provincia» e di sottrarre al governo il sostegno delle forze di stanza nel nord dell'Afghanistan.
Ancora nelle scorse ore il presidente Usa Joe Biden dimostrava di non voler fare passi indietro rispetto al piano di disimpegno delle truppe americane dal Paese che nel corso degli ultimi vent'anni - la guerra più lunga combattuta dai militari a stelle e strisce - hanno presidiato una transizione incompiuta, dopo l'estromissione dei talebani dal potere.
IL NEGOZIATO
Oggi rimangono poco più di 650 soldati Usa nel Paese, con Washington che si offre di dare appoggio aereo alle forze governative quando possibile; insomma, garantire la sicurezza dell'Afghanistan ora che gli insorti tornano a premere è adesso compito primario di Kabul.
Se il sostengo militare è un miraggio, è sul ritorno al negoziato diplomatico che gli Stati Uniti provano a giocare le loro carte. Ieri, dopo la scia di conquiste da parte delle milizie ribelli, l'inviato speciale americano per l'Afghanistan Zalmay Khalilzad è tornato a Doha, capitale del Qatar, dove i talebani hanno una rappresentanza, per provare a intavolare un nuovo dialogo.
E per recapitare un avvertimento: «Qualsiasi governo che conquisti il potere con la forza non sarà riconosciuto dalla comunità internazionale». Un Afghanistan nuovamente in mano ai talebani finirebbe ai margini della scena globale, mette in guardia Khalilzad, spalleggiato in questo da Bruxelles, per cui «è essenziale che riprenda il processo di Doha» e ci si sieda attorno a un tavolo per delineare un accordo politico sul futuro dell'Afghanistan.
Tavolo che si riunisce oggi, nel formato della troika estesa, con Russia, Cina e Pakistan. L'Unione europea segue la nuova operazione diplomatica e spera in una «pace sostenibile e in una responsabilità condivisa», ma intanto i suoi governi sono preoccupati dai risvolti domestici dell'inferno Afghanistan, in particolare dai flussi di persone in fuga dal conflitto.
LA LETTERA ALLA UE
In una lettera indirizzata alla Commissione, i ministri degli Interni di sei Stati membri - Germania, Austria, Paesi Bassi, Danimarca, Belgio e Grecia - hanno voluto mettere nero su bianco che l'attuale situazione in Afghanistan non giustifica un freno ai rimpatri volontari e non «di chi non ha reali esigenze di protezione», come pure comunicato dalle autorità statali di Kabul alle cancellerie europee un mese fa.
«Sospendere i ritorni invierebbe un segnale sbagliato e motiverebbe ancor di più gli afghani a lasciare le loro case», scrivono i sei ministri. Doccia fredda, però, da Bruxelles: «Date la circostanze, non si prevedono rimpatri forzati», commentano fonti dell'esecutivo Ue.