NELEO DI SCEPSI - COME INSULTAVANO GLI ANTICHI
Erano molteplici gli insulti e le parolacce nell'antica Grecia. Eccone alcuni: Barùmastos, "dalle tette pesanti"; Boiotòs, "beota" (i greci credevano che gli abitanti della Beozia fossero molto poco intelligenti e quindi stolti): Bolbitòomai, "puzzare di merda bovina"; Graosòbes, "amante di vecchie"; Dulomìktes, "trombaschiavi"; Engortùnoomai, "essere stupido come un cretese di Gortina"; Xulokùmbe, "donna con la grazia di un barcone"
Alcune delle parolacce contemporanee arrivano direttamente dal latino, come stercum o meretrix, "sterco" e "meretrice". Il peso di certi insulti pompeiani scandalizzerebbero anche il più scurrile dei contemporanei. Sui muri di Pompei, tra le altre cose, si legge infatti: "Appollinare, medico di Tito, in questo bagno egregiamente cagò"; "Che gioia inculare!"; "Piangete ragazze, il mio cazzo vi ha abbandonato. Ora incula i culi. Fica superba addio!"
FEDERICO SANGUINETTI - LE PAROLACCE DI DANTE ALIGHIERI
Nel Medioevo l'epiteto peggiore era quello di "villano", che con estremo classismo rimandava alla presunta volgarità degli abitanti delle campagne, un termine che ancora oggi conserva una se pur pallida calunnia verso il prossimo. Nella Firenze di Dante, invece, ci si divertiva a dare al prossimo del "mal ghibellino cacato", cui si poteva rispondere con "sozzo guelfo traditore" o, all'occorrenza geografica, con "sozzi marchisani" o "sozza romagnola" La sottile arte del turpiloquio era assai praticata nella civiltà classica Le imprecazioni più in voga tra i Greci erano "per il cane!", "per la capra!", "per l'aglio!" Anche i Romani non erano troppo pudichi L'insulto più comune era "sporco sannita"
2 - LE DICEVA PURE SOCRATE
Andrea Marcolongo per "Specchio - la Stampa"
È difficile per noi contemporanei, abituati da oltre due millenni a idealizzarli e a venerarli, immaginare gli Antichi intenti ad insultarsi e a prendersi a male parole in mezzo alle strade di Atene e di Roma. Eppure, tra una discussione filosofica e una tragedia a teatro, i Greci e i Romani non se le mandavano certo a dire: non furono solo epiteti e poesie ciò che la Musa cantò da Omero in poi, ma anche molte, coloritissime parolacce.
Sconcerta scoprire che la poco sottile arte del turpiloquio - etimologicamente dal latino, il "parlare impiegando un linguaggio osceno" - sia venuta al mondo con la comparsa stessa dell'uomo, che a quanto pare ha iniziato a mandare a quel paese i suoi simili non appena scoperta la posizione eretta.
Se i resti archeologici rinvenuti in Mesopotamia non ci consentono di ricostruire le espressioni più colorite della Preistoria, è però certo che gli antichi Egizi amassero insultarsi senza sosta: l'interpretazione di alcuni geroglifici attesta come, già a partire dal III millennio a.C., il popolo del Nilo avesse sdoganato la bestemmia e l'insulto osceno, mettendo in dubbio la casta condotta delle madri di certe divinità o la loro prestanza sessuale. In greco antico, la parolaccia si diceva aiscrologia, ossia "discorso turpe", "vergognoso", anche se i Greci ebbero ben poca vergogna a coniare termini e espressioni che ancora oggi farebbero arrossire la più avvelenata delle lingue.
Nessuna di queste parolacce, ovviamente, si apprende al liceo classico, dove si ha piuttosto la tendenza a immaginare Platone, Sofocle, Aristotele e tutti gli altri intenti a carezzarsi verbalmente con sottilissime metafore e raffinatissimi epiteti. Se al liceo non mi sono mai immaginata Omero intento ad insulare un passante o a litigare con un pescivendolo al mercato, né mai nella storia i versi più sboccati dei poeti greci hanno trovato posto nelle antologie scolastiche, sottoposte a quella che può essere a ragione definita una censura linguistica, tutti noi liceali abbiamo avuto più di un attimo di turbamento scoprendo le parolacce riportate con dovizia di esempi nel dizionario di greco che abbiamo tenuto tra le mani per almeno cinque anni.
Ricordo ancora oggi le risatine, i commenti imbarazzati e i giochi di parole oscene dei miei compagni quando, nel bel mezzo di una versione, cercando nel Rocci chissà quale ortodosso sostantivo inciampavamo all'improvviso in una parolaccia greca cosi turpe e scurrile da mettere a disagio l'insegnante, che per eleganza fingeva di non sentire come s' insultavano Platone e gli altri.
Le offese più taglienti, e per questo più indimenticabili, sono state persino recentemente raccolte in un libro edito da Melangolo, intitolato Come s' insultavano gli Antichi. Dire le parolacce in greco e in latino, curiosa opera di Neleo di Scelpsi (nom de plume dietro il quale si nasconde Francesco Chiossone, giovane esperto di filosofia antica e curatore appassionato di classici greci e latini). E dunque cosa si urlavano dietro i cittadini più irascibili di Atene e di Roma? Senza scadere nella volgarità, le espressioni più in voga tra i Greci erano "per il cane!", "per la capra!", "per l'aglio!" - e se un "per Zeus!" è imprecazione già omerica, bisogna riconoscere come i Greci, a differenza degli Egizi, non amassero scherzare troppo con gli dei.
Alla trivialità urbana bisogna poi aggiungere il tocco di stile di letterati e poeti classici, che lasciarono un segno non solo nella letteratura, ma anche nel turpiloquio. Pitagora ad esempio, nel VI secolo a.C., credendo che la matematica fosse una manifestazione diretta della realtà, imprecava addirittura con i numeri - l'offesa suprema sarebbe stata dare a qualcuno "del numero 4".
Maestro indiscusso della parolaccia fu senz' altro il poeta lirico Archiloco che già nel VII secolo a.C., nei suoi giambi, non le mandava certo a dire - alcune sue offese a sfondo sessuale sono irripetibili, perlomeno in questa sede. Sempre ai Greci va riconosciuto il merito della prima barzelletta con parolacce, protagonista un eunuco, riportata nel Philogelos, un'antologia di barzellette in greco del IV secolo d.C.
Dall'altro lato del Mediterraneo, i Romani non erano certo più pudichi dei Greci: alcune delle contemporanee parolacce arrivano direttamente dal latino, come stercum o meretrix, che credo non valga la pena di tradurre. I graffiti rinvenuti sui muri di Pompei dimostrano come non tutti i discorsi dei Romani fossero tratti direttamente da Cicerone: il peso di certi insulti pompeiani scandalizzerebbero anche il più scurrile dei contemporanei, meritando un posto più in un bagno dell'Autogrill che in una biblioteca.
A livello più poetico, c'è da rallegrarsi che Catullo sia passato alla storia per il suo odi et amo e non per le male parole con cui, una volta rifiutato, prese a schiaffi verbali il destinatario del suo amore, secondo forse solo a Marziale, un altro poeta che, nelle sue satire, si divertiva a ricoprire d'insulti i politici del suo tempo come nel peggiore dei lupanari.
Un vizio, quello della parolaccia, che ha poi attraversato i secoli e le epoche storiche. Se a Roma l'insulto più comune era dare dello "sporco sannita" a qualcuno, in riferimento al popolo dei Sanniti che strenuamente si era opposto al potere della SPQR, nel Medioevo l'epiteto peggiore era quello del "villano", che con estremo classismo rimandava alla presunta volgarità degli abitanti delle campagne, un termine che ancora oggi conserva una se pur pallida calunnia verso il prossimo.
Nella Firenze di Dante, infine, ci si divertiva a dare al prossimo del "mal ghibellino cacato", cui si poteva rispondere con "sozzo guelfo traditore" o, all'occorrenza geografica, con "sozzi marchisani" o "sozza romagnola". E se oggi l'uso della parolaccia è stato sdoganato in contesti più che insospettabili, concludo con un paradosso: la nostalgia dell'italico insulto.
Sono poche le lingue straniere che possiedono più male parole del nostro italiano: per accorgersene, basta trasferirsi all'estero e parlare un altro idioma che, per comparazione al nostro, non potrà che risultare, in certi contesti, un poco pedante, ingessato, scolorito. Vivendo a Parigi e parlando tutto il giorno francese, dell'italiano mi manca tutto, compreso il suo turpiloquio - e così, se proprio devo, non rinuncio qualche volta a infarcire i miei discorsi con i colori, anche verbali, del nostro Tricolore.