Graziella Melina per “il Messaggero”
Per motivi di privacy non si ha la certezza che il bambino nato pochi giorni fa ad Aosta sia davvero positivo al Covid. E non sarebbe di certo il primo caso. Ma restano aperti ancora tanti interrogativi. «La maggior parte dei bambini che nascono da mamme positive non risultano contagiati», assicura Fabio Mosca, direttore di Neonatologia e Terapia intensiva neonatale, all'Irccs Ca'Granda ospedale maggiore policlinico di Milano e presidente della Società italiana di neonatologia.
La trasmissione verticale del virus, cioè da mamma a bambino, non è stata provata, né esistono evidenze che il contagio può avvenire tramite il latte materno. «Per le mamme pauci sintomatiche o con sintomi lievi consigliamo quindi l'allattamento al seno. Poi è bene però tenere il bimbo a tre metri di distanza e utilizzare prodotti specifici per la disinfezione e il lavaggio delle mani». Quando capita invece che il neonato si positivizza, «osserviamo che in genere non ha sintomatologia clinica preoccupante, resta asintomatico oppure ha poca febbre. A proteggerlo, ipotizziamo, è soprattutto la cosiddetta immunità innata».
I DATI
Secondo l'Istituto Superiore di Sanità fino al 10 aprile i casi di contagio nella fascia di età da 0 a 18 anni sono stati 2.040: la maggior parte (880) si è registrata dai 12 ai 18, mentre in ciascuna delle altre tre fasce (0-1, 2-6, 7-11) sono stati circa 400. Solo il 7,0% dei contagiati è stato ricoverato in ospedale. Un bimbo (dai 2 ai 6 anni) purtroppo non ce l'ha fatta.
Secondo i pediatri, la percentuale dei bambini affetti dal Covid sarebbe però molto più alta. «Ad oggi tutti i soggetti sotto i 18 anni sembrano i meno colpiti dal contagio - spiega Paolo Biasci, presidente della Federazione italiana medici pediatri -, dobbiamo capire però se questa minore evidenza è dovuta al fatto che ai bambini vengono effettuati meno tamponi, perché spesso poco sintomatici oppure perché la malattia dura pochi giorni». E dire che i pediatri spesso sono i primi a notare che qualcosa non va. «Facciamo la segnalazione, ma poi ci sono dipartimenti di prevenzione che vanno a decidere sull'effettuazione del tampone. Capita anche che il bambino viene contattato dopo qualche giorno, quando i sintomi principali ormai sono sfumati». E così si decide di non sottoporli al test diagnostico.
La Società italiana Medici Pediatri (Simpe) calcola che «attualmente i casi pediatrici appartengono a cluster familiari e che sotto l'anno di vita la percentuale di casi critici varia dal 10% al 8,7%. Nelle varie statistiche i bambini asintomatici o paucisintomatici positivi variano dal 47% ad oltre il 50% , il che rende difficile la loro individuazione e li rende i facilitatori ideali durante il periodo scolastico». Per individuare la catena di trasmissione, invece, sottoporre i bambini al test diagnostico potrebbe rivelarsi fondamentale.
LO STUDIO
«La popolazione pediatrica non è stata studiata a fondo - ammette il presidente della Simpe Giuseppe Mele -. Di fatto, sappiamo che i bambini non hanno manifestazioni cliniche importanti, salvo qualche eccezione. Eppure, andare ad indagare l'incidenza del Covid potrebbe rappresentare la chiave di volta del problema: soprattutto nella fase di ripresa delle scuole, proprio per poter andare a spegnere i focolai in maniera mirata». «Finora non abbiamo soggetti particolarmente gravi o critici - spiega Alberto Villani, direttore di Pediatria generale e Malattie infettive dell'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma e presidente della Società italiana di Pediatria -. I sintomi del Covid sono difficili da definire proprio perché sono prevalentemente lievi.
Piuttosto, sono molto preoccupato per gli altri bambini che hanno bisogno di cure: c'è diffidenza a portarli in ospedale per paura del contagio. E così arrivano da noi in ritardo, in condizioni gravissime». Senza contare i piccoli pazienti cronici, «che si ritrovano senza cura perché ovunque sono state sospese le attività non urgenti. E' una situazione che allarma i pediatri di tutti gli ospedali».