Gianmaria Tammaro per Dagospia
Proviamo a fare un passo indietro e a prendere un bel respiro profondo. Fatto? Ecco. La crisi delle sale non è finita, e sicuramente non si è risolta dopo l’incredibile successo al botteghino di quest’estate.
Quella è stata un’eccezione. Una pausa. Un momento fortunato in cui tutto, dai pianeti alle major hollywoodiane, si è allineato. Non ci saranno altre Barbie pronte a salvarci dal disastro; e sicuramente Christopher Nolan non ha film finiti nel cassetto pronti per essere distribuiti. Ora siamo noi, di nuovo noi. E dobbiamo fare i conti con la dura – durissima – realtà dei fatti.
C’è una rottura profonda tra pubblico e chi fa i film. Ed è una rottura che non può essere sanata a colpi di “se non andate al cinema le sale chiuderanno” o di “i film italiani vanno sostenuti perché italiani”. C’è bisogno di un elemento fondamentale: la qualità. E lo sappiamo: non tutti hanno la stessa idea di qualità (che? Come?).
Ma ci sono storie e storie, e se le prime hanno una loro forza, una loro capacità di coinvolgere e appassionare le persone, le seconde fanno fatica. Perché rientrano in un ciclo produttivo che si autosostiene, viziato dai finanziamenti pubblici e da una visione estremamente ridotta di produttori e distributori.
Come si crea la qualità? Non c’è un’unica risposta a questa domanda (sorpresa!). Ce ne sono diverse. Una potrebbe essere: rischiando. Dando agli sceneggiatori la possibilità di essere sceneggiatori, e di non dover proporre film per “190 paesi” (cit.) o per un particolare pubblico. Anche perché, poi, i distributori cercheranno sempre di vendere – sì, si dice così – quel film alla famiglia, alla piccola borghesia, a una medietà che semplicemente non esiste più. Quindi, dicevamo: l’importanza del rischio. E insieme a quella, l’importanza di ritornare alla realtà, di toccarla con mano, di capire che c’è bisogno di altro.
C’è bisogno, per esempio, di parlare di cose che si sanno, che ci sono, o anche di guardare altrove. Nei fumetti, per esempio. Gli americani hanno schiacciato sotto il peso delle storie di supereroi la loro industria – è vero, non diciamo di no; Martin Scorsese ha ragione. Ma le nostre storie, che sono più autoriali e più – eccoci – coraggiose, possono vivere un’altra vita, respirare con un altro fiato. E ci vuole, pure qui, la voglia di fare bene, di stare attenti e di rischiare. Non basta il brand, il grande nome, per fregare – sì, fregare – il pubblico.
Ci sono produttori che, in questi anni, ci hanno provato. Anzi, che continuano ancora a provarci. Nel cinema italiano, dal 2015, ci saranno state almeno tre rivoluzioni: il ritorno del genere, la prima; il ritorno dei grandi autori, la seconda; e il momento dei giovani giovanissimi, la terza. Tutte queste rivoluzioni si sono schiantate contro un muro di silenzio e insensibilità. No, niente mancanza di empatia: semplice menefreghismo.
La colpa è dei produttori? Nì. Dei distributori, allora? Nemmeno. Allora la colpa è dei registi e degli scrittori! Non proprio. La colpa, se di colpa vogliamo parlare, è di tutti. Pubblico e critica compresi. Il cinema italiano è una cosa complessa, viva, talvolta appesantita dalla tradizione e dalla sua storia (“ma vi ricordate, dico, i bei tempi? La Hollywood sul Tevere, Fellini, Mastroianni… eravamo i re del mondo, eravamo”); altre volte, invece, è forzatamente alleggerita dai toni delle commedie che non ci appartengono più.
Tra gli autori, non c’è stato un vero ricambio generazionale. E mancano, perciò, storie generazionali come potevano essere quelle di Verdone, Troisi e del primo Moretti. Tra gli autori che ancora girano film, poi, si è diffusa come una difficoltà effettiva nel farsi notare oltre le notizie, i red carpet e i titoli dei giornali. Ma un meccanismo che serve come l’ossigeno al nostro cinema è il passaparola. E il passaparola si innesca solo se c’è interesse da parte del pubblico.
Ora, bisogna portare gli spettatori al cinema e dare qualcosa agli spettatori di cui valga la pena parlare. È facile? Per carità. Però bisogna ripartire esattamente da qui. E bisogna ripartire esattamente da qui anche con la comunicazione.
Non sono gli attori a non fare gli attori e a non promuovere i loro film (se ci sono degli obblighi contrattuali, e ci sono, vero?, sono tenuti a farlo). È il sistema, questo benedetto sistema, che deve lavorare insieme, come un corpo unico e sano. Non in conflitto con sé stesso e nemmeno innamorato della sua immagine riflessa. Ma un sistema, direte voi, non c’è: e costruiamolo, rimbocchiamoci le maniche; smettiamola di dire cosa non esiste e prendiamo mattoni e calce.
Non si sentono mai mea culpa, mai riflessioni; mai ammissioni pubbliche di errori. Sono sempre e solo gli altri. Questi maledetti, fetentissimi altri. E invece no, siamo anche noi. È la stampa, che fatica a uscire dal circoletto dei titoli e delle notizie date prima degli altri, delle anteprime a tutti i costi e delle esclusive svilenti; ed è il marketing, che non si è ancora accorto che là fuori c’è un nuovo mondo, che va avanti da diversi anni e che si chiama Internet.
È questa idea contorta, vecchio stampo, che abbiamo dell’autore completo, che dirige e scrive (e se non dirige e scrive, guai). È lo snobismo che proviamo nei confronti di certi registi, come – e non abbiamo paura a fare nomi – Luca Guadagnino: esattamente che problemi ci sono? Perché non riusciamo a sostenere quello che fa, a parlarne – non positivamente ma – in modo sano? È una delle figure chiave del nostro mercato, e lo è al di là di tutto. Anche al di là di quello che pensiamo.
Il cinema italiano è in crisi perché produce tanto e male, perché non dà modo alle persone di seguire le uscite e di innamorarsi di qualcosa. Perché non ci sono le star e perché non abbiamo capito che una realtà come la nostra non ha bisogno di star: ha bisogno di professionisti. Ci riempiamo sempre la bocca con l’artigianalità del cinema italiano. Perfetto. Torniamo a essere artigiani e meno artisti. Torniamo alla concretezza delle cose.
Gli esercenti devono rivedere gli spazi, aggiornarli, renderli più accoglienti. Il costo del biglietto non è un confine insuperabile: è un accordo. Se si paga tanto, è fondamentale ricevere tanto. Un investimento non deve essere solo corrisposto, ma pure rispettato. Il cinema deve essere un luogo di comunità, di raccoglimento, di vita. Non una stazione ferroviaria, dove si va e viene, dove non resta niente.
Dobbiamo andare in sala per emozionarci, per condividere un’esperienza con un gruppo di sconosciuti, per incazzarci, per essere chi non siamo mai stati e vivere una vita che non abbiamo vissuto – fine momento retorica gratuita, promesso. E dunque è con quest’idea in mente che ci dobbiamo muovere. I panel, gli incontri, le chiacchiere. Fuori c’è un incendio e non abbiamo tempo per pensare alla forma del secchio da usare: dobbiamo spegnerlo. E la nostra acqua, in questo caso, è la qualità.
Proviamo a fare un passo indietro e a prendere un bel respiro profondo. Fatto? Ecco, torniamo a raccontare storie belle, storie firmate da sceneggiatori convinti, pagati per il loro valore, con attori e attrici entusiasti del progetto, e per un pubblico che non sia uno solo: ma che sia, appunto, molteplice. A furia di voler far contenti tutti, abbiamo finito per non accontentare nessuno.