Masolino D'Amico per "La Stampa"
Che cosa si può scrivere su Franca Valeri? Tanto per cominciare, è difficile parlare di lei come di qualcuno che «è stato». A cento anni sembrerebbe legittimo essere sopravvissuti a se stessi, ma questo caso è diverso. Nessuno ha mai considerato Franca Valeri come una pensionata che ha esaurito gli argomenti e quindi se ne sta serenamente in disparte.
Oddio, non sgomitava certo - non lo aveva mai fatto nemmeno quando era al massimo dell'auge - ma chi la cercava non tornava a casa a mani vuote.
Anche negli ultimissimi tempi, quando il Parkinson le rendeva difficile farsi capire, soprattutto al telefono, le frasi che pronunciava con fatica erano sempre, nella loro essenzialità, fulminanti; basterebbe recuperare il discorsetto che fece non più di due estati fa alla Casa del Cinema di Roma, in occasione di una serata a lei dedicata. Così, anche se le sue manifestazioni erano diventate rare, non c'è bisogno di descriverla troppo a coloro che tanto giovani non sono.
Regine della moderna comicità femminile - Marchesini, Guzzanti, Littizzetto, Cortellesi... - le hanno dato atto della strada da lei loro aperta ormai tantissimi anni fa. E a qualcuno avranno fatto effetto le dimensioni dell'accoglienza che le riservò un Festival di Sanremo ancora nel 2014.
Agli imberbi, a coloro che non l'hanno vista proprio mai, suggerirei di cominciare con due film in bianco e nero degli Anni 50, entrambi diretti dal suo concittadino Dino Risi, in cui la Franca interpreta due personaggi diametralmente opposti, una perdente e una vincente.
La vincente è la prepotente imprenditrice milanese che infierisce sull'infingardo marito romano, un Alberto Sordi al suo più caratteristico (Il vedovo, 1959: capolavoro della commedia all'italiana). La perdente è la sorella bruttina di Sophia Loren ne Il segno di Venere (1955). Si tratta di una zitella che vive di illusioni, e si ride di lei, ma il sottofondo è amaro. Donnine così, decise a ignorare una società che calpesta i loro sogni, sono descritte in chiave drammatica da un Tennessee Williams.
franca valeri alberto sordi piccola posta
Ma anche nell'arte di Franca Valeri c'è una nota di disperazione, sempre camuffata sotto l'ironia. Fu come attrice tragica, dopotutto, che si era proposta quando tentò di entrare, invano, all'Accademia di arte drammatica.
Come ognun sa, quella delusione, unita a qualche prima esperienza sul palco, la stimolò a trovare la sua vocazione nell'umorismo, fondando coi complici Vittorio Caprioli e Alberto Bonucci (poi sostituito da Luciano Salce) e col regista Luciano Mondolfo i cosiddetti Gobbi, specializzati in sketch da camera, senza scene e senza costumi, da recitarsi in piccoli teatri. Erano irresistibilmente spiritosi e furono subito esportati e ammirati a Parigi dove si stavano imponendo, anch' essi in locali da pochi posti, i rivoluzionatori della scena Beckett e Ionesco.
Naturalmente nell'adottare il tono faceto i nostri si adeguavano allo stato d'animo prevalente nella miglior parte dello spettacolo italiano affrancato dalla retorica del ventennio. Lo stesso neorealismo cinematografico durò solo a costo di trasformarsi nella surricordata commedia all'italiana, dove si scherza su situazioni molto serie. Anche la Franca, come tutta la nazione, era uscita da un periodo tutt' altro che lieto.
La sua famiglia, di origini e tradizioni ebraiche, era stata duramente colpita dalle leggi razziali; molti componenti si erano rifugiati all'estero, lei stessa aveva dovuto girare con documenti falsi. In seguito dichiarò di non aver provato nessuna pietà per il Duce quando lo vide morto a Piazzale Loreto. Nel suo adottare la comicità non vi fu mai peraltro un abbandono alla buffoneria.
I suoi impagabili ritratti di femmine ridicole - la signorina snob che tanto piacque alla radio, la pigra signora Cecioni sempre al telefono con mammà - non erano satira, ma realtà osservata e riprodotta col sorriso, con un'indulgenza che veniva dal profondo.
Tout comprendere c'est tout pardonner. La Franca osservava le sue creature, e le capiva; faceva ridere di loro, ma un po' come si ride di noi stessi. Non condannava. Del resto, la dimostrazione della sua serietà di fondo è nell'amore sviscerato che coltivò per l'opera lirica, cui per un decennio dedicò la miglior parte delle sue energie, proteggendo e allevando cantanti e anche dirigendo allestimenti. E l'opera lirica come si sa è l'opposto dell'ironia.
Qui non ci sono sfumature, ma passioni - odio, amore, gelosia, vendetta. È il regno dell'assoluto, è il mondo ideale senza compromessi. A questo punto bisognerebbe tracciare un bilancio dell'attività della nostra, ma ci vorrebbe un'enciclopedia. Dell'attrice, nella sua gamma ristretta grandissima, si è detto qualcosa. Cominciò in teatro con piccole invenzioni, incoraggiando il cinema a utilizzarla prima in parti di contorno, sopra le righe (la coreografa ungherese di Luci del varietà di Fellini e Lattuada), quindi in personaggi di spessore, specie quando dimostrò di poter tener testa perfino al mostro Alberto Sordi.
Ancora al cinema, prima di essere costretta dall'età a caratterizzazioni marginali, fu coautrice e interprete di tre notevoli, originali pellicole di suo marito Caprioli. Il teatro lo frequentò per tutta la vita, e non solo in testi scritti da lei stessa, tra cui commedie musicali al tempo del sodalizio con Caprioli
mario carotenuto franca valeri
Dopo la radio, la tv le diede la popolarità, senza minimamente chiederle di snaturare il suo appello all'intelligenza degli spettatori - specie nei varietà con regie di Antonello Falqui, quasi ininterrottamente dal 1956 all'84; nel 1993 vi fu un ritorno, in Magazine 3. Per i suoi libri, dove si ammirano la sua precisione ed economia, non rimane più spazio. Leggeteli tutti, magari cominciando con la sintetica autobiografia Bugiarda no, reticente (2010).
Masolino D'Amico per "La Stampa"
Una volta domandai a Mario Monicelli quali fossero, degli attori che aveva diretto, i più bravi. Senza riflettere, rispose subito, Vittorio Gassman e Franca Valeri. Poi precisò, «ovviamente stiamo parlando di bravura tecnica.
Quei due potevano fare qualunque cosa gli si chiedesse, a volte mi divertivo a inventare un percorso complicato, solo per vedere come se la cavavano». La cosa mi è rimasta impressa perché non mi ero mai reso conto che la Franca fosse «anche», nel mestiere di attore, bravissima.
L’immagine di lei è piuttosto quella di una attrice-scrittrice, creatrice di personaggi - una osservatrice diabolicamente penetrante e spiritosa nel cogliere debolezze, prosopopee, ipocrisie degli italiani, o meglio delle italiane, borghesi ma anche popolane, degli anni in bianco e nero.
Quasi un pendant femminile, radiofonico, teatrale, poi televisivo, di Alberto Sordi, rivelazione del periodo; e non per nulla nei vecchi meravigliosi film che non ci stanchiamo di recuperare (un titolo per tutti, Il vedovo di Dino Risi) lei è tra i pochissimi in grado di tenere testa a quell’incontenibile genio. Come dissero di Ginger Rogers?
franca valeri urbano barberini – possesso
Faceva tutto quello che faceva Fred Astaire, ma camminando all’indietro e coi tacchi alti. In quel cinema Franca Valeri correva con l’handicap di non esservi prevista, solo le cosiddette maggiorate erano delle star. Bisognava scrivere parti apposta per lei. Chi lo fece non se ne pentì. Penso al cinema perché è lì, e nelle teche dove si conservano tante mirabili apparizioni in tv, che la Franca continuerà a deliziare chi se la ricorda, nonché a incantare le nuove generazioni.
Il suo teatro sopravvive in maniera diversa, meno vistosa, anche se nel teatro il suo talento si rivelò agli inizi insieme a quello dei complici, Vittorio Caprioli e Alberto Bonucci poi rimpiazzato da Luciano Salce: i cosiddetti Gobbi, che nel 1950 si esibirono a lungo addirittura a Parigi, al tempo delle piccole sale alternative che accanto a loro rivelarono Beckett e Ionesco. Erano specializzati in brevi sketches senza costumi di scena, spesso parodie (La baia al nonno, sui riboboli toscani; o la lezione su come interpretare un testo russo, facendo capire al pubblico che fa un gran freddo).
Li vidi allora, quando li ripresero nei primi Anni 50. Li ricordavo irresistibilmente divertenti e tali sono rimasti, qualche loro registrazione si vide di recente nella mostra che commemorava Salce. La chimica di quel terzetto era notevole, specie tra la Franca, milanese e intellettuale, e Caprioli, napoletano e istintivo; qualcosa ne sopravvive anche nelle pellicole - Leoni al sole, Parigi o cara - dirette da Caprioli . Seguono molti episodi, anche un musical, Lina e il cavaliere, musiche di Fiorenzo Carpi (potrei cantarne ancora qualche motivo).
Poi i grandi successi con le sue macchiette in una tv che diventava un po’ più spregiudicata; tornò a recitare in teatro in propri testi; scrisse libri sempre brevi e arguti (mai annoiare! è un principio che pochi esibizionisti per mestiere coltivano); firmò anche parecchie regie di opera. Di lavorare non ha smesso mai. Ogni volta che apre bocca è perché ha qualcosa da dire, e lo stile per dirlo: con quella ironia che rimane il principale strumento di salvezza del secolo che la Franca ha percorso, e di cui, senza mai ignorarne la tragicità, ci aiuta a sorridere.
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