Mattia Feltri per La Stampa
Da qualche settimana su Tik Tok e altri social furoreggia una sfida indicata dagli hashtag #shoah oppure #holocaust (in Italia #olocausto). I ragazzi vestono pigiami a righe, si applicano la stella gialla, si disegnano le occhiaie o i lividi, si presentano scarmigliati - i prigionieri dei lager venivano rapati a zero, ma nessuna gloria vale tanto - e i migliori interpreti del ruolo di deportato ebreo si misurano col numero di like. L'hashtag #holocaust è stato visualizzato 18,2 milioni di volte, l'hashtag #olocausto più di centomila. Non c'è bisogno di gran scialo di aggettivi.
Nulla era fuori dalla nostra immaginazione quanto la possibilità di un gioco di ruolo ispirato ad Auschwitz.
Ora si possono cercare le spiegazioni più pigre, l'inconsapevolezza vorace e digitale delle nuove generazioni, il fallimento della scuola, la trascuratezza dei genitori, la fine delle ideologie ma la verità, temo, è un'altra: quella tragedia, la tragedia della guerra, delle dittature, dello sterminio di massa, davanti alla quale i poeti erano stati costretti a riconsiderare la possibilità della poesia, e i filosofi a rivedere la direzione della storia, e i popoli a investirsi della responsabilità delle loro sorti, ecco, quella tragedia non è più al centro della nostra vita di società, non è più un ammonimento a noi stessi, non è cosa nostra ma uno sprofondo lontano, di altri tempi e altri uomini.
Tutto sta lentamente e inesorabilmente sfumando: la democrazia è un bene negoziabile, l'autoritarismo un'opzione, i diritti fondanti svenduti per i capricci, e la Shoah, come un ritornello o un passo di danza, è una prova d'abilità per lo show online.
mattia feltri premio e' giornalismo 2018 8