Filippo Facci per “Libero Quotidiano”
Ludopatia: la prendiamo alla lontana, se non vi dispiace. L' esempio più noto è quello dello Stato che ha il monopolio dei tabacchi e poi fa le campagne contro il fumo: un esempio di perfetta incoerenza, anche se ora, ufficialmente, il Monopolio non esisterebbe più. I famosi bolli, sulle sigarette, sono scomparsi: però ci sono le immaginette terrorizzanti obbligatorie per legge (infartuati, bambini morti ecc.) e soprattutto ci sono un sacco di tasse residue.
Per ogni pacchetto di sigarette, poniamo da 5 euro, il tabaccaio prende 0,50 centesimi (il 10 per cento), il fornitore ne prende 70 e poi ecco, arriva lo Stato: 2,90 euro di accisa più altri 0,90 di Iva. Dovrebbero fare circa 8 miliardi all' anno, e, nonostante le campagne che lo stesso Stato conduce, è la classica battaglia che lo Stato non vorrebbe mai vincere. Parentesi: non stiamo contando la spesa sanitaria per i danni da fumo, terreno ambiguo e buono per sparare cifre a caso. Però, ecco, resta il concetto: è ormai condiviso che il fumo generi malattie, ma nessuno giudica malattia la dipendenza da tabacco, e questo nonostante la dipendenza sia legata a precise sostanze.
Nel caso della ludopatia, invece, sì. Hanno stabilito che sia una malattia (ludopatia, appunto) nonostante riguardi un' abitudine e un comportamento portato all' eccesso, questo secondo ciò che lo stesso Stato definisce come eccesso. Che cosa, esattamente, lo Stato giudica un eccesso? Sicuramente non i propri guadagni: la «malattia» gli frutta 15 miliardi di tasse all' anno, e, in circa 20 anni, i giochi pubblici hanno registrato circa 275 miliardi spesi (dai cittadini, intesi come i malati) e, di questi, circa 158 miliardi hanno rappresentato entrate pubbliche, mentre 117 miliardi sono convogliati nei ricavi dell' intero comparto.
Media annua: fanno 13,7 miliardi spesi dai malati, di cui circa 8 miliardi corrispondono a entrate pubbliche e di circa 5,8 miliardi servono per pagare il comparto, cioè pagare gli spacciatori (di malattie) che lo Stato stipendia. Se l' esempio fosse calzante, potremmo dire che lo Stato si comporta come le multinazionali di «Big Pharma», quelle che ogni anno inventano nuove malattie per piazzare i relativi farmaci. Ma l' esempio non è calzante per niente, perché la ludopatia non è una malattia: è comunque un' abitudine, un comportamento, in altre parole uno stile di vita tra i tanti che la sanità mondiale e gli stati (ipocriti) hanno deciso di combattere, a costo di restringere progressivamente le nostre libertà.
BANALE OSSESSIONE
Che cos' è, infatti, la ludopatia? È un irrefrenabile bisogno di giocare, un' attitudine che comporta continui cambiamenti di umore e rende preda di repentini passaggi da euforia a depressione. In un' altra parola, è una banale ossessione: e tutti noi conosciamo o abbiamo conosciuto persone ossessionate da qualcosa, da un hobby, uno sport, una passione, un luogo, un cibo, un lavoro, una persona o altre ossessioni, appunto: ma sarebbe impossibile catalogarle in toto come malattie, dunque si procede discrezionalmente, prestabilendo a tavolino ciò che si decide sia patologico ed emergenza sociale.
Ora: chi abbia un' anima libertaria si spingerebbe a dire che la vita appartiene a ciascuno, dunque che ciascuno dovrebbe esser libero di sperperare tutta la propria pensione in una slot-machine o in un video-poker, se crede: ciò farà di lui non un malato, ma un cretino, qualcuno che nessuna «campagna» potrà dissuadere. Solo gli stati totalitari possono arrogarsi il diritto di porre divieti agli stili di vita: ma conosciamo gli esiti disastrosi e controproducenti di tutti i proibizionismi, ergo che fa lo Stato italiano? Per dirlo in maniera raffinata: chiagne 'e fotte.
SOCIETÀ MALATA
Uno stato serio vieterebbe in toto le pubblicità con giochi e vincite di denaro: non si limiterebbe, come fa, a porre dei limiti parziali. Uno stato serio - invece di passare ai raggi X solo i contribuenti - renderebbe obbligatoria un' anagrafe patrimoniale di qualsiasi giocatore o scommettitore, che altrimenti non potrà giocare né entrare in luoghi o siti dove si gioca. Ma noi non siamo legislatori, non è questo il punto.
Il punto è che non si può medicalizzare la società a seconda delle emergenze sociali. Un' ossessione, a meno di casi clamorosi, non può essere definita malattia, e una dipendenza psicologica neppure. Eppure l' Organizzazione Mondiale della Sanità (organismo che più politico non si può) ha recentemente classificato la ludopatia come «malattia mentale»; nel caso di giovani si parla di «gaming disorder», nel caso degli anziani si àddita gente che punta cifre esagerate al Superenalotto e investe somme importanti nei gratta&vinci.
E siccome nessuno può essere proibito di essere cretino o rincoglionito, allora gli spiegano che è drogato dopo avergli allungato la dose. Anzi non drogato: malato. Lo Stato continuerà a orientare gli stili di vita guadagnandoci anche dei soldi, e propinandoci, intanto, ipocrite campagne come «Mettiamoci in gioco», «Punta in alto», «Batti il gioco», «Quando la vita è un gioco è in gioco la vita», «Vinci solo quando smetti», «Non giocarti gli affetti», «Non azzardatevi!», «La macchinetta frega anche la vecchietta». Nella speranza che al famoso cittadino - noi - resti banalmente la forza di essere quello che vuole essere.