Marino Niola per “Robinson - la Repubblica”
Siamo tutti figli della guerra, diceva Eraclito. Secondo il grande filosofo greco infatti è polemos, il conflitto, a generare la realtà. Sia quella umana che quella divina. Mentre per lo scrittore tedesco Ernst Jünger, fortemente sospetto di polemofilia, è la guerra ad essere nostra figlia. E dunque noi saremmo padri di nostro padre.
O di nostra madre, se decliniamo la guerra al femminile. In realtà hanno ragione entrambi ma nessuno al cento per cento. Perché l'evoluzione ha fatto di noi i prodotti e al tempo stesso i produttori della guerra. L'animale sociale, come lo chiamava Aristotele e l'ominide omicida di 2001 Odissea nello spazio sono la stessa persona. Come il mite Dottor Jekyll e il feroce Mister Hyde.
Lo dice Peter Turchin in La scimmia armata, appena tradotto in italiano da Luca Fusari e Sara Prencipe per Utet. L'autore è uno scienziato della complessità che insegna Biologia evolutiva all'Università del Connecticut. E la sua specializzazione è la cliodinamica, che sarebbe l'applicazione di modelli matematici alle dinamiche storiche, accostando il punto di vista squisitamente qualitativo della storia a quello quantitativo dello scienziato empirico che lavora su data base giganteschi.
Con l'ambizione di riunire e processare tutti i dati del passato dispersi negli infiniti frammenti prodotti nel tempo da migliaia e migliaia di storici, archeologi, entomologi, biologi, linguisti, antropologi, demografi, studiosi di religioni ed altri rami dello scibile. Mettere a sistema questa mole sterminata di informazioni, secondo Turchin, cambierà il modo di leggere la storia. Rendendo finalmente accessibili i capitoli mancanti dell'evoluzione.
GIURAMENTO DEI MEMBRI DEL BATTAGLIONE DI AUTO-DIFESA DEL DONBASS
Che custodiscono la risposta alla grande domanda su noi stessi. Siamo votati alla pace o alla guerra? Siamo esseri per natura socievoli come voleva Aristotele. O ciascun uomo è lupo dell'altro uomo come pensava Hobbes? L'autore dà un colpo al cerchio aristotelico e un colpo alla botte hobbesiana. Rispondendo che il grande motore della socialità umana è proprio la guerra. Che ha messo gli uomini gli uni contro gli altri ma paradossalmente ha sviluppato uguaglianza e cooperazione, che sono la precondizione della pace.
Anche se alla luce dell'aggressione all'Ucraina è difficile crederlo, Turchin assicura che diecimila anni di guerre hanno di fatto contribuito a consolidare l'ultrasocialità, «ovvero la capacità degli esseri umani di formare grandi gruppi di estranei che collaborano » . Insomma, mentre la guerra creava imperi e stati nazione, le società sviluppavano strumenti di neutralizzazione dei conflitti esterni e della violenza interna.
Strumenti materiali come la razionalizzazione economica e la redistribuzione più equa delle risorse che fa crescere la solidarietà e quindi la stabilità. Ma anche anticorpi etici, religiosi, ideologici che promuovono un'idea della vita sempre più pacifica e un'ideale di uomo sempre meno pronto a menare le mani per affermare la sua superiorità. In realtà il vero antidoto al conflitto è la cooperazione, che comporta l'allargamento dei confini del gruppo. Che a sua volta trasforma la guerra stessa in un processo di " distruzione creativa".
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Terribile per il numero assoluto di vittime ma " utile" perché lo redistribuisce statisticamente. Di fatto fra gli effetti totalmente distruttivi degli scontri fra bande preistoriche o fra piccole società e le guerre dei grandi imperi c'è un'enorme differenza di scala.
Nella Roma repubblicana, che praticamente viveva in uno stato di conflitto endemico, oltre il dieci per cento dei cittadini era certo di morire combattendo. E nella seconda guerra punica ha perso la vita addirittura un terzo dei maschi adulti. L'impero invece era una potenza multinazionale che aveva spostato lontano dall'Italia i suoi confini. E di conseguenza anche i conflitti.
Che per lo più si svolgevano alle frontiere. Fra l'altro solo l'un per cento dei Quiriti si arruolava nelle legioni confinarie. Mentre la maggior parte della popolazione viveva in pace e godeva di una certa prosperità. Più o meno come la maggioranza degli americani durante la guerra in Vietnam. Secondo Turchin, nel valutare evolutivamente gli effetti della guerra il dato davvero importante non è il numero complessivo di vittime ma la distribuzione delle probabilità di morire di morte violenta.
Ovviamente non tutti gli imperi hanno la stessa riuscita. Molti falliscono perché si fondano solo sulla forza e sulla disuguaglianza. Che resta un fattore di conflitto e un riduttore di cooperazione. Alla lunga vincono quelli che riescono a rendere conveniente la collaborazione su larga scala. Che trasforma l'estraneo in alleato e poi in prossimo. Ma c'è un modo di far tesoro del passato per costruire un futuro meno bellicoso?
Turchin non ha dubbi. Si può. A condizione di trasformare lo studio della storia in una vera scienza. In grado di prevenire e curare le malattie della società, esattamente come il progresso delle scienze ci ha permesso di curare le malattie degli individui. Forse così scopriremo anche l'algoritmo della pace. Senza dimenticare che in ogni caso cooperazione e guerra sono inseparabili. Sono lo yin e lo yang della socialità. Da mantenere in equilibrio. Perché non si può essere solo yin ma nemmeno forever yang.