Paolo Salom per il “Corriere della Sera”
profughi rohingya in bangladesh
La Birmania (Myanmar) deve agire rapidamente per «evitare atti che portino al genocidio» della comunità musulmana dei Rohingya. Così, ieri, ha stabilito la Corte penale internazionale dell' Aia, sollecitata a intervenire sulla questione da un ricorso del Gambia su richiesta dell' Organizzazione per la cooperazione islamica (Oic).
Una sentenza che non lascia spazio a interpretazioni: la minoranza, che nell' agosto del 2017 è in gran parte fuggita in Bangladesh per salvarsi dalla repressione dell' esercito birmano, è stata fatta segno di «crimini contro l' umanità». Da allora, circa 740 mila persone hanno superato i confini tra lo Stato birmano di Rakhine e il vicino Bangladesh, andando ad aggiungersi a decine di migliaia di altri profughi, in un contesto precario che Onu e Ong cercano di tenere sotto controllo.
Ma altri 600 mila Rohingya restano ancora in Birmania, «confinati» nei loro villaggi o in campi di fortuna - qualcuno li ha definiti «di concentramento» - senza libertà di movimento e in condizioni igienico-sanitarie al limite. Il governo rappresentato dal premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi ha cercato di prevenire la condanna: prima partecipando alla sessione introduttiva dell' inchiesta all' Aia; poi ordinando un' indagine «sul campo» raccolta in un rapporto di oltre 400 pagine che riconosceva possibili «singoli episodi» di brutalità da parte di soldati ma escludeva ogni «volontà esplicita di genocidio».
barack obama incontra aung san suu kyi 6 PROTESTE CONTRO AUNG SAN SUU KYI PER IL MASSACRO DEI ROHINGYA
Ora il Tribunale delle Nazioni Unite con sede all' Aia afferma che «genocidio» è stato. È la prima volta che un' istituzione internazionale affronta, senza giri di parole, una questione complessa come quella dei Rohingya, peraltro eredità della (ormai ex) giunta militare. Ma il punto è proprio questo: tornata ufficialmente alla democrazia, ritrovata in Aung San Suu Kyi un leader di prestigio, la Birmania alla prova dei fatti si è ripetuta affrontando una crisi umanitaria con le pratiche spicce di una dittatura. E Aung San Suu Kyi ha dilapidato, in poco tempo, un patrimonio di stima e ammirazione accumulato attraverso sofferenze evidentemente dimenticate.
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