Maria Serena Natale per il “Corriere della Sera”
«È il gioco del lunedì, scopri chi è stato silurato e chi si è licenziato» scherza uno dei sopravvissuti del nuovo servizio e-commerce di TikTok a Londra. In otto mesi la piattaforma per il commercio elettronico lanciata dal social cinese nel Regno Unito ha perso una ventina di persone, metà squadra. Giornate di oltre 12 ore, foto di dipendenti al computer all'alba fatte circolare come modelli di abnegazione, pratiche chiuse in vacanza prese per medaglie al merito e all'opposto pubblica gogna per le performance più modeste.
Non solo ritmi insostenibili e standard di produttività con obiettivi irrealistici, ha ricostruito il Financial Times, ma una cultura del lavoro vessatoria che calpesta il diritto per moltiplicare il profitto ed esprime gerarchie di valori «mille miglia lontano» da noi, riprendendo il titolo di un vecchio film di Zhang Yimou girato tra Cina e Giappone. Punto di non ritorno, le parole pronunciate durante una cena aziendale dal capo dell'e-commerce di TikTok Europe, Joshua Ma: «Da capitalista non credo nel congedo di maternità».
Partita un'indagine interna, il dirigente si prende una pausa e cambia ruolo. Il fenomeno TikTok, che ha imposto linguaggio ed estetica dei suoi video alla platea mondiale degli utenti più giovani, porta un modello di business talmente competitivo da essere considerato una minaccia persino da Mark Zuckerberg. La vicenda londinese non richiama solo la responsabilità di restare fedeli a se stessi nel cortocircuito tra realtà distanti e interconnesse - peraltro non monolitiche, anche nell'universo cinese avanzano rivendicazioni contro «la cultura 996»: al lavoro dalle 9 del mattino alle 9 di sera, 6 giorni su 7.
In controluce fotografa la permeabilità del nostro mondo, che nei decenni ha alzato contro il capitalismo selvaggio un argine fatto di diritti e tutele. Argine che - ce lo ricordano le ondate di burnout e le prime battaglie legali dei lavoratori meno tutelati, i rider - va rafforzato ogni giorno, anche in Occidente.