Romina Marceca per “la Repubblica - Edizione Roma”
Due video in cui Wissem Ben Abdel Latif denuncia le condizioni in cui vivono i migranti nel Centro per l'immigrazione di Ponte Galeria e che invia ad un amico in Italia. Per quelle immagini il migrante tunisino morto a 26 anni sarebbe stato picchiato da almeno un agente. Forse perché è stato beccato con quel cellulare in mano. Questo raccontano almeno tre testimoni e adesso Repubblica è in grado di mostrare quelle immagini con la voce di Abdel in sottofondo.
Abdel non accetta quella prigionia, chiede aiuto come può. Non si dispera, è lucido quando parla. «Le porte delle camere non si chiudono. Ci hanno tolto tutto e dato un pantaloncino e una maglietta. E una coperta che chissà dove stava prima. E che non basta per coprirci. Qui fa freddissimo al punto che non riusciamo a dormire. Aiutateci! Aiutateci! ».
Immagini e voci di chi sperava un futuro diverso e, invece, nel Paese che lo ha accolto ha trovato la morte, legato a un letto d'ospedale dove si trovava per «disagio schizo-affettivo » . E, dopo la morte, è arrivata anche la mala burocrazia: l'autopsia è stata eseguita senza che la famiglia sapesse ancora che aveva perso un figlio. «Credevano che finisse in rivolta e l'hanno massacrato», sostengono i suoi familiari a Kebili.
È il 14 ottobre quando Abdel invia il primo video. L'amico conosciuto su Facebook raccoglie il racconto: «Abbiamo viaggiato con tre agenti a bordo. Solo Dio sa cosa ci hanno fatto. Ci hanno tolto i telefonini, tutto. Abbiamo fame, siamo in un stato che solo Dio lo sa, le nostre famiglie non hanno nessuna notizia di noi. Ti supplico trovaci qualcuno. Un avvocato, qualcuno per aiutarci». Wissem Ben Abdel Latif è a un mese e mezzo dalla sua morte, il 28 novembre scorso.
E è consapevole che dal Cpr, molto probabilmente, non uscirà vivo. « Abbiamo iniziato uno sciopero della fame. Non mangiamo nulla » , spiega nel secondo video. Il primo ottobre era salito a bordo di un gommone per raggiungere la Sicilia con altri 68 tunisini. Aveva sperato che dopo la quarantena sarebbe arrivata la libertà. Invece è stato portato a Roma. «Non siamo stati ammanettati nel nostro Paese per esserlo qui. Dove sono i diritti dell'uomo? Non capiamo? È tutto una bugia ».
Abdel comprende i rischi che sta correndo ma all'amico tunisino in Italia, che intanto diffonde i suoi video per denunciare la storia di Wissem, spiega accorato: « Sto rischiando per farvi vedere la verità. Sto rischiando. Sto vivendo una cosa che voglio far vedere. Dio sa. Questa è la mia testimonianza. Siamo decisi a proseguire lo sciopero. Non vogliamo il rimpatrio. Siamo pronti a morire. Possono portare via i nostri cadaveri ».
Sono immagini che, se non lo sono già, presto finiranno nelle mani della procura che sulla morte di Abdel ha aperto un fascicolo per omicidio colposo. Perché per quei video, girati di nascosto con il cellulare salvato dal sequestro all'ingresso del Cpr, Abdel sarebbe stato pestato dagli agenti. Ma l'amico in Italia aveva cercato di aiutare Abdel. Aveva trovato un'avvocata a Genova e aveva messo il migrante in contatto con lei.
Abdel non lo aveva più ricontattato dopo il 15 ottobre e l'amico avrà creduto che tutto si stava risolvendo. Non è andata così. Abdel sarebbe stato pestato dentro al Cpr tra il 18 e il 23 novembre. Almeno è questo che hanno ricostruito i suoi compagni di camerata. Dalla Tunisia, intanto, arriva il grido di dolore della famiglia che ieri si è riunita per un minuto di silenzio. La sorella Rania è in sciopero della fame da una settimana, il padre presto sarà in Italia. Gli studenti sono in agitazione e hanno aperto una pagina facebook: "Siamo tutti Wissem Abdelatif".