Da "All’aria sparsi" di Elena Martelli, il Saggiatore
Quando i capelli sono diventati il centro della mia vita facevo l’inviata alla sessantanovesima edizione del Festival di Sanremo dove Loredana Bertè affascinava il palco dell’Ariston con la sua chioma blu elettrico.
Vedendola pensavo ai miei capelli lunghi, biondi; pensavo che dopo quella settimana avrei iniziato una terapia oncologica e li avrei persi. Avevo già acquistato la parrucca. Per sette giorni e sette notti la preoccupazione per la chemioterapia mi ha ossessionata, cercava faticosamente di prendere forma dentro di me. Poi il giorno dell’inizio è arrivato.
Ero nella sala d’aspetto del day hospital di radiologia, al quarto piano dell’ala E del policlinico Gemelli, una stanzetta angusta, con i muri bianchi ingrigiti dall’usura e le panche in legno come nelle stazioni ferroviarie di una volta, così antiche che nemmeno nelle frazioni di campagna ci sono più. In corridoio era tutto un andirivieni di carrelli che scorrevano, di portelloni elettrici che si spalancavano, di altoparlanti che chiamavano il numeretto.
All aria sparsi Elena Martelli
Faccio la visita preterapia con l’oncologo di turno. Distesa su una comoda poltrona, il mio cognome e la mia data di nascita sulla sacca rossa che pende dal fusto. L’infermiere mi consola, «Sai che questi bei capelli li perderai…». Il tono del suo avviso è mellifluo, suona sadico come le rassicurazioni della strega di Biancaneve e si assicura un posto nella mia memoria, tra le frustrazioni della mia infanzia.
Tre ore dopo, oscillando sui miei sospiri, attraverso il parcheggio sotto il sole tiepido di marzo. Dei giorni successivi a casa ricordo il senso di alienazione, uno stordimento profondo di cervello e ossa, l’ebete consapevolezza di sentirmi un puzzle sfasciato a terra in frammenti. Questo l’effetto collaterale della chemio, per dirlo con Alda Merini: «una fattura che abbrutisce lo spirito e la mente».
Quando mi rialzavo dal letto dopo quei quattro, cinque giorni tremendi era tutto un muoversi da ubriachi: movimenti lenti e ondeggianti per evitare gli spigoli. Il senso di fatigue, un’astenia estrema di mente, corpo, cuore, che non passa dormendo, me lo porto ovunque, disseminata in un labirinto di lentezza e sconnessione, e sono depressa nel senso che non riesco a fare l’esatto contrario, esprimermi.
Poi, una mattina i capelli non ci sono più, la faccia goffa nello specchio non è la mia, sembra Renée Jeanne Falconetti, la pulzella d’Orléans di Carl Theodor Dreyer. Senza capelli e poi senza più nemmeno un pelo, il tempo che impiego per diventare me ogni mattina è notevolmente aumentato.
Non basta indossare la parrucca e uscire, bisogna prima disegnare le sopracciglia e marcare gli occhi senza ciglia. Il furto autorizzato dei capelli mi viene addosso come uno choc imprevisto. Credevo che, per funzionare, sarebbe bastato occuparmi del lato pratico della faccenda; come si cambia la gomma alla macchina, ero andata dall’esperto di capelli, il parruccaio.
Ma avevo sottovalutato il lutto della perdita, quello per cui altre donne prima di me si erano sentite miserabili, afflitte, nude, umiliate. A me faceva sentire senza corrente, come quando nei teatri va via la luce e rimane la bassa tensione. Sepolta viva da qualche parte, ora so che quando l’anima se ne va, va a finire nei capelli, perché i capelli sono ciò che decidiamo di rivelare di noi, sono l’anima del corpo.
Ne ho avuto esperienza quando li ho ritrovati. In silenzio, si sono fatti avanti sul mio cranio, una sera, prima di prendere sonno. Sembrava che degli spilli sottili punzecchiassero la nuca attraverso la federa del cuscino, era un fastidio simile al prurito che implode sulla pelle dopo aver giocato con i cuccioli di gatto, una seghettatura molesta che spinge a un solo desiderio, porre fine a quel tormento al più presto e grattare la zona con veemenza.
E quando i miei polpastrelli, perlustrando alla cieca la zona del fastidio, sono incappati nei primi filamenti, e ho dovuto sfregare la testa sulla federa e sbatacchiarla di qua e di là sul cuscino per un po’ di volte, la molestia è diventata piacere. Così ho inventato una asana labiale di contentezza, ho affondato le labbra nella faccia sorridendo come mi capita di fare quando mi sembra che, seppur in piccoli momenti, la vita mi stia salutando con l’inchino. Spingendomi alla sorgente della nuova peluria, i nuovi capelli si erano insomma annunciati chiedendomi semplicemente una grattata.
Questa era la mia percezione, l’officina dei capelli mi aveva comunicato di aver terminato lo sciopero a tempo determinato e di aver riavviato la catena di montaggio della produzione. Ero consapevole che la felicità che provavo sprigionava dalla riconquista personale, ma al di là del senso di rinascita che irradiava da ogni mio poro, mi pareva chiaro che fosse un fenomeno oggettivo che, di per se stesso, trasudasse vita. Quando non sentivo più la sensazione degli aghetti perché la peluria ormai vellutata come quella di un pulcino mi avvolgeva soffice la testa e io avevo sempre le mani nei capelli perché mi piaceva possederli, continuavo a osservare la loro crescita con un senso di stupore e meraviglia.
La loro perdita mi aveva casualmente gettato tra i puniti e le punite. Prigionieri e prigioniere di guerra, schiavi e schiave, traditori e traditrici, meretrici, pazze, possedute (prevale il genere femminile), una categoria che attraversa la storia, le epoche e, in continua evoluzione con il medesimo significato privativo, la contemporaneità. La mannaia dei capelli come l’eterno ritorno dell’identico cade sempre in testa perché il marchio della vergogna sia in piazza sotto gli occhi di tutti. «Senza capelli abbiamo la faccia goffa» scrive in pagine di rara lucidità Primo Levi, individuando nella rasatura la prima umiliazione con cui nei campi di sterminio prende forma quel che definisce «il processo di demolizione dell’essere umano».
Prima ti umiliano togliendoti l’anima dal corpo, «non ci appartiene più niente: ci hanno preso i vestiti, le scarpe e anche i nostri capelli […] ci leveranno tutto, anche il nome»; poi ti bruciano. Il processo di annientamento inizia dai capelli e la ragazza senza nome che nella fabbrica della morte di Treblinka chiede al suo aguzzino di lasciarle un po’ di capelli – «altrimenti a cosa assomiglierei?» – lo sa e sembra dar voce a questo primo sconforto, la perdita dell’identità.
«Il ne faut pas que tu sois» scrive come su una lapide nelle sue memorie Robert Antelme, sopravvissuto a Buchenwald, parafrasando il concetto della sparizione. L’eco di queste parole rendeva piccina la mia preoccupazione personale di non riuscire più a esprimermi ma giustificava le mie paure, dava un senso ai miei pensieri, facendomi apparire chiaro come un lampo il fatto che i capelli, questo strumento potente ed eccezionale come chiaramente palesa il loro risorgere spontaneo, continuo e indipendente dal resto del corpo, fossero prigionieri del peggior nemico della bellezza, il senso comune.
Quel senso comune che con il suo tocco sminuisce ogni cosa. Intrappolati sotto una superficie di ghiaccio di luoghi comuni, tumulati vivi sotto la targa «discorsi da parrucchiere» – un epitaffio che ricorda una parte importante del discorso e non la totalità e con cui, di solito, il suddetto discorso sui capelli muore –, sapevo che bastava chiudere in uno sgabuzzino il tepore del senso comune e sospendere il giudizio per ritrovare i capelli già in cortile, a ballare allegramente all’aria aperta, finalmente liberi di raccontarsi.
Le storie dei capelli sono come le fontane, sgorgano ininterrottamente dall’inizio dell’umanità formando innumerevoli rivoli che tuttavia finiscono tutti in un identico mare di metafore con una capacità semantica fuori dall’ordinario. Questo perché i capelli sono espressione biologica e insieme evento culturale. E la ragione di questo binomio sta nel fatto che sono l’unica parte di noi che non solo possiamo plasmare a nostro piacimento, ma di cui dobbiamo per forza occuparci per necessità vitale. Fatti di materia, trasudano spirito. Fatti di corpo, ne esprimono l’anima, ne interpretano l’aria, ne glorificano l’aura, fanno la differenza tra una buona e una cattiva giornata.
Che questo primato del nostro corpo fosse un precipitato di spiritualità e carnalità in grado di trascinare con sé le grandi domande dell’umanità – vita, morte, religione, potere, trascendenza –, di mettere in gioco significati essenziali in rapporto all’umano, al divino, alla sessualità, ai concetti di maschile e femminile, interpretando gli umori, la politica, la morale e il sentire di ogni tempo e luogo, sono alcune fra le ragioni che mi hanno spinto a scorrazzare come una matta tra i capelli e disegnarne una mappa. Per scoprire che sono affascinanti perché sono dotati di ambiguità, che è l’essenza dell’erotismo, ed è per questo motivo che sono un universo complesso.
Con questa mappa tricologica volevo fosse chiaro che parlano a tutti, non solo alla me a cui mancava un pezzo; e lo fanno da sempre, incessantemente, perché comunicare è il loro vero mestiere. Tutto sommato la frivolezza che ne ha offuscato l’immagine è il peccato veniale della loro stupefacente storia.
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