Filippo Di Giacomo per “il Venerdì di Repubblica”
Da una decina d'anni, è in corso un processo contro la Chiesa. Riguarda il segreto confessionale, il "sigillo sacramentale" che impedisce al prete, pena la scomunica e la dimissione dallo stato clericale in diritto canonico, o un anno di carcere e multa per il diritto penale italiano, di rivelare quanto appreso.
Secondo gli accusatori, tale "sigillo" è correo nella maggior parte dei silenzi caduti sugli abusi compiuti da preti. In una decina di Paesi, anglosassoni e non come Spagna e Francia, le assemblee legislative hanno votato, o stanno per farlo, leggi che obbligano chi riceve la confessione di un abusatore di un minore a denunciarlo.
In Italia, secondo una sentenza della Cassazione, la 6912 del 14 gennaio 2017, il dettato del nostro codice penale (il 622 c.p. e il 200 c.p.p.), cioè l'obbligo del segreto, resta valido quando il penitente è l'autore di un crimine, non quando ne è la vittima.
Tradotto: se non è zuppa, è pan bagnato. Il 25 marzo scorso, concludendo il 32° corso sul Foro interno organizzato dalla Penitenzieria apostolica, Francesco è intervenuto sulla vexata quaestio senza se e senza ma: «Il sigillo è dal momento in cui si comincia al momento della fine. Ma se a metà avete parlato di quella cosa? Niente, tutto è sotto sigillo», sia per il peccatore, sia per la vittima. Solo che non ha fatto cenno ai soliti "nemici di Gesù e della Chiesa".
Ha solo parlato di «qualche associazione» cattolica nella quale «sta entrando una relativizzazione del sigillo sacramentale: il sigillo è il peccato, ma poi tutto quello che viene dopo il peccato o prima del peccato, il confessore lo dice ai superiori». Cosa si intendea per "qualche associazione", nella Chiesa è noto. E se lo sa anche il Papa, il Vaticano potrebbe smettere di far finta di non sapere.