“Ho passato anni a sentirmi un continuo nodo in gola. Ero l’agnello nella tana dei lupi”. A parlare è Federico Vespa, il figlio maggiore del celebre giornalista e conduttore Bruno, che nel suo libro in uscita “L’anima del Maiale. Il male oscuro della mia generazione” racconta di aver sofferto di una grave forma di depressione per vent’anni. A riportare la storia dell’uomo è Il Giornale.
Federico, 40 anni, giornalista e conduttore radiofonico, è nato in una famiglia benestante. Suo padre è il giornalista Bruno Vespa, sua madre il magistrato Augusta Iannini. Nonostante questo racconta di aver vissuto dai diciotto anni con quello che lui definisce “un mostro”, la depressione, da cui solo ora è uscito.
"Federico [...] ha vissuto, più o meno dai suoi diciotto anni, con un mostro dentro, la depressione. Insicurezza, ansia, ‘un continuo nodo in gola’, farmaci, anche terapie tentate e fallite, fino alla più recente, finalmente decisiva, liberatoria, che lo ha reso ‘sereno’, dopo oltre vent’anni in cui si era sempre sentito, invece, ‘l’agnello nella tana dei lupi’".
E la “tana dei lupi” è il mondo che lo circonda ora, quello dei social, ma anche la realtà in cui è cresciuto, quella degli anni Ottanta e Novanta, di cui il figlio di vespa non condivideva l’entusiasmo, la leggerezza e l’ottimismo.
Scrive Federico nel suo libro: “Sono nato nel 1979, mi pesa dirlo, non lo nego. [...] Un anno prima della mia nascita succedevano molte cose in questo maledetto e affascinante Paese. Paradossalmente avrei preferito essere vecchio ora ed essere stato giovane allora. Avrei almeno potuto chiedermi perché uno dei più grandi statisti che l’Italia abbia mai conosciuto, Aldo Moro, sia stato prima rapito con il sacrificio degli uomini della sua scorta, poi assassinato dopo una trattativa Brigate Rosse-Stato [...]”
BRUNO VESPA E I DUE FIGLI FEDERICO E ALESSANDRO
Federico pensa che la depressione sia il male della sua generazione. Nel suo caso il disturbo si è spesso nascosto, ma gli ha mangiato numerosi anni di giovinezza e di vita.
Si legge sul Giornale:
Il “disturbo ansioso-depressivo” che gli hanno diagnosticato, che per qualche anno si è pur sopito, è rimasto “in coma farmacologico” ma poi è sempre rispuntato, inesorabile, a mangiargli via anni su anni, non solo di giovinezza, ma anche di crescita, di vita, di esperienza, di amore e amori [...], di felicità, di speranza, vecchio stile e anche, come la definisce lui stesso “2.0”.
Federico nel libro racconta poi di aver spesso avuto paura anche di chiedere aiuto per il suo male, perché ha sempre temuto di diventare aggressivo con le persone a lui più care proprio a causa della depressione.
[...]Chiedere aiuto può fare ancora più paura della paura stessa del male, di quel sudore, quell’ansia, quel terrore di perdere il controllo e perfino, di diventare aggressivo, do fare male a qualcuno, magari a qualcuno a cui vuole bene. Il fatto è che il male, con il suo fascino inspiegabile, qualche volta funziona da anestetico, e ti mette sotto una campana che ti allontana dalla vita, dagli affetti, dalla famiglia, dai desideri e allora non ti senti più niente, non provi più niente [...]
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