Renato Franco per il “Corriere della Sera”
Giovanna Botteri è la presidente di Giuria del Premio Luchetta 2020, istituito dalla Fondazione Luchetta con la Rai. In gara tv news, reportage tv, stampa italiana e straniera, fotografia.
Dalla Bosnia all' Iraq lei ha attraversato 25 anni di conflitti sparsi nel globo. Ci si abitua all' orrore della guerra?
«Bisogna sempre guardare la guerra con gli occhi degli innocenti, delle persone più deboli ed esposte, dei disarmati. Ogni conflitto, ogni bombardamento, si porta dietro una generazione perduta, una generazione cresciuta con il sentore della paura. Il prezzo della guerra è sempre terribile.
Se ti abitui alla morte, se non distingui più la linea rossa che fa di te una persona che racconta l' orrore, se non senti più il dolore significa che hai perso la speranza.
Io credo sia qualcosa a cui non ci si abitua mai, per fortuna e per sfortuna. E per farlo devi continuare a provare rabbia per l' ingiustizia che racconti».
La volta più dura?
«La strage di 6 bambini a Sarajevo. Erano andati a giocare con le slitte e sono morti sotto due colpi di mortaio. Con Miran Hrovatin andammo alla morgue , lui uscì in lacrime perché gli sembrava di aver visto suo figlio. A Baghdad le mamme avevano paura di quando i bambini uscivano a giocare, gli davano valium e tranquillanti per farli dormire di più perché stare all' aperto vuol dire schegge, bombe, morte. Ecco la guerra è anche questo: vedi in controluce le persone a cui vuoi bene e pensi: se capitasse a me?».
Tanti anni da inviata, poi corrispondente. Sembrano due lavori molto diversi...
«Sono meno diversi di quel che si possa pensare. Si tratta di raccontare le persone, di fotografare quello che succede. Raccontare le cose è anche capire perché avvengono: può essere una guerra o l' ascesa di Trump, ma devi comunque spiegare come questo sia possibile, analizzare il perché. Il dovere dei giornalisti è mettere in guardia, il problema è che siamo sempre inascoltati, il risultato è che ti senti una Sibilla Cumana fallita».
L' hanno accusata di essere anti Trump...
«Non sono mai stata anti o pro qualcuno: ho pensato che Trump fosse portatore di valori che potevano essere pericolosi o tossici per la società americana. Non fa parte del nostro mestiere fare i militanti, il giornalista del servizio pubblico deve essere imparziale, ma è legittimo avere dei valori: credo nella necessità della pace e non della guerra, credo nei ponti e non nei muri».
Dopo 12 anni a New York, ora è a Pechino. Lei la sente la censura cinese?
«È evidente che il governo ti fa sapere se hai detto delle cose non gradite, ma quel che più conta è la tua appartenenza nazionale: la tua libertà va di pari passo con i rapporti che la Cina intrattiene con ogni singola nazione».
Dopo il servizio di «Striscia» lei per una volta è diventata notizia: che effetto le ha fatto?
«Un effetto supernegativo. In generale il problema è quando si confondono i piani, quando la tua immagine diventa notizia. Noi raccontiamo, non siamo quelli che devono essere raccontati: se la donna da soggetto diventa oggetto del racconto c' è qualcosa di sbagliato. I problemi sono sempre legati all' immagine: la giornalista che fa tv non dovrebbe mai rispondere a una serie di canoni legati al suo essere donna piuttosto che giornalista».
Oggi si parla tanto di fake news...
«Una volta si chiamava propaganda, il termine fake news è più nebuloso, ma la sostanza è identica: notizie false che si mettono in giro perché fa comodo a chi lo fa. Sono meccanismi antichi. Le fake news sono la trovata recente di una propaganda vecchia».
GIOVANNA BOTTERI GIOVANNA BOTTERI GIOVANNA BOTTERI