“IO NON CAPIVO NIENTE DI QUEL CHE MI FACEVANO FARE! ERO DIVENTATO UN ROBOT. COSÌ SONO USCITO DA AUSCHWITZ” – SE NE VA A 98 ANNI, DONATO DI VEROLI, L’ULTIMO DEGLI EBREI ROMANI SOPRAVVISSUTI ALLA SHOAH - NON VOLLE MAI RACCONTARE LA SUA ESPERIENZA NEL CAMPO DI AUSCHWITZ E L'ORRORE A CUI DOVETTE ASSISTERE – “MI ERO RASSEGNATO A MORIRE, PERCHÉ NON C'ERA NEMMENO UNO SU CENTO DA POTERSI SALVARE, NIENTE”

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Marcello Pezzetti per “la Repubblica”

 

DONATO DI VEROLI 4 DONATO DI VEROLI 4

Io non capivo niente quel che mi facevano fare, facevo! Ero diventato un robot. Così sono uscito da Auschwitz». Donato Di Veroli, uomo semplice, ingenuo, mite, fino alla fine dei suoi giorni si è chiesto come abbia fatto a ritornare da Auschwitz.

 

Perché, pur nella sua ingenuità, una cosa era ben chiara nella sua mente fin dal momento in cui era stato scaricato da quel treno a Birkenau: il suo destino, così come per tutti gli ebrei deportati, era quello di essere eliminato, anche se inizialmente aveva evitato la camera a gas, dove era finita la stragrande maggioranza di quelli che erano sul suo convoglio. In ogni caso i nazisti lo avrebbero eliminato.

 

Ma lui è ritornato, e non ha mai smesso di chiedersi il perché. Donato, l'ultimo ebreo romano ancor in vita fino a ieri, era la quintessenza della romanità: nato a Trastevere, in via dei Vascellari, era figlio di un «commerciante di carta da avvolgere », come descriveva l'attività di suo padre, ed aveva tre fratelli e quattro sorelle. Una famiglia numerosa, che era andata ad abitare in piazza Campitelli, nei pressi del quartiere ebraico della città, e che era caduta in una situazione catastrofica dopo la promulgazione delle leggi antiebraiche.

 

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Nel 1942, obbligato a lavorare sotto Tevere, umiliato aveva deciso di non continuare a farsi trattare da schiavo, ma per questo era stato arrestato e rinchiuso a Regina Coeli.

Tornato libero, aveva capito che dopo l'8 settembre il pericolo lo poteva colpire duramente, e il 16 ottobre, infatti, si era nascosto e aveva evitato la deportazione.

 

Ma poi, con suo fratello, era ritornato a casa, come molti altri ebrei in città, nonostante fosse estremamente pericoloso. Per sopravvivere lui e il fratello facevano dei trasporti con un carretto e un cavallo, che ogni sera portavano a turno in una stalla a Trastevere. Una sera di aprile del 1944, però due fascisti in borghese lo aspettavano sul ponte "Quattro Cape" e lo arrestavano, perché ebreo.

 

Lo portarono nella Caserma Mussolini, poi nella sede della Gestapo di via Tasso, dove venne torturato, poi ancora una volta a Regina Coeli, e infine spedito a Fossoli. Lì fu testimone dell'uccisione di un compagno, ucciso a freddo sul piazzale degli appelli perché non aveva capito un ordine e non l'aveva immediatamente eseguito. Inserito nel convoglio partito il 16 maggio, senza capire quel che stava succedendo, si ritrovò dopo qualche giorno nell'inferno di Birkenau.

 

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Selezionato per il lavoro forzato temporaneo nel campo e immatricolato col numero A 5372, venne assegnato a un lavoro massacrante nel sottocampo di Harmense, vicinissimo ai crematori di Birkenau: doveva lavorare in impianti che i nazisti avevano istituito per l'allevamento dei pesci. «Nudo come Dio lo aveva fatto», lui e gli altri compagni di quel Kommando doveva stare nell'acqua, in grossi bacini infestati da sanguisughe e altri animali, dal mattino alla sera, con temperature insostenibili.

 

Lì, un giorno assistette al tentativo di fuga di molti deportati, finito con il massacro di tutti quanti. Erano gli uomini del Sonderkommando di Bi rkenau, gli uomini assegnati al lavoro nei crematori, tra cui Shlomo Venezia e suo fratello, così come Nicolò Sagi, eroe della resistenza ebraica ucciso anch' egli proprio in quel giorno.

 

Ma Donato, con un comportamento sempre "ubbidiente", umile e timoroso, ma nello stesso tempo non disposto ancora a cedere (non è un caso che avesse appreso perfettamente alcune espressioni in tedesco, che ricordava benissimo anche a distanza di anni), resistette fino al trasferimento all'interno del Reich, a Struthof-Natzweiler e infine a Dachau, dove nella primavera del 1945, ormai vicino alla morte, vide l'arrivo degli americani.

auschwitz auschwitz

 

«Mi ero rassegnato a morire, perché non c'era nemmeno uno su cento da potersi salvare, niente! » mi disse più volte col suo linguaggio semplice e particolare.

Invece rivide, tremando di gioia e insieme di infinita tristezza per tutti i compagni "sommersi", ancora la sua Roma, la sua piazza Campitelli, la sua casa e i suoi famigliari.

 

Rimase sempre nell'ombra, non si mise mai in prima fila in nessuna "manifestazione della Memoria", ma ebbe il coraggio straordinario, nel 1972, di testimoniare a Roma nel corso dell'istruttoria contro Friedrich Boßhammer e di salire sul banco dei testimoni al processo a Berlino nel 1972 contro lo stesso "Judenberater", ovvero il principale responsabile della deportazione degli ebrei dall'Italia nel 1944. Grazie anche a questa sua testimonianza, Boßhammer venne condannato all'ergastolo. Questa la grandezza di quest' uomo mite e semplice che si definiva un "robot".

 

Ebrei sopravvissuti ad Auschwitz Ebrei sopravvissuti ad Auschwitz auschwitz auschwitz

 

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