Simone Marchetti per "www.vanityfair.it"
In questa intervista troverete, in ordine sparso: un merlo indiano che si chiama Spadaccino e che chiede se hai pagato il conto; due genitori, Ornella e Alfredo, che sembrano usciti da un duetto della Traviata; una donna bambina che si scopre sex symbol e Sant’Antonio che fa svariati miracoli. Poi, ancora: un professore universitario che baratta una canzone dei Puffi per un 19 in Fisica, la parrucca di Love me Licia che fa prudere i capelli e svariate paia di guanti di lattice che ti trasformano in femme fatale.
«Sembra il riassunto della mia vita», racconta Cristina D’Avena mentre si abbiglia da Dita Von Teese per il servizio che vedete in queste pagine. «Del resto, il segreto della mia storia è non averne mai scritta una: ho semplicemente assecondato il destino. E quando lui chiamava, io ho sempre risposto: sì, lo voglio».
Confermo. Quando le abbiamo chiesto di posare celebrando il desiderio, la sessualità, la voglia di amare nonostante tutto quello che ci sta succedendo, lei non si è tirata indietro.
«Per forza: io sono un’istintiva. E credo profondamente nel mio istinto di pancia. Infatti la mia carriera è stata un’infilata di prime volte, di innamoramenti a prima vista. Oppure di no a prima vista. Per me è tutto o niente. E lo capisco subito se una cosa fa per me».
Anche quando è lontanissima dal suo personaggio?
«Mi piace essere vista come un oggetto del desiderio. Nella vita mi è capitato un ruolo di bimba donna e di donna bambina: è un ossimoro strano, qualcosa che ti fa amare indistintamente da uomini e donne perché incarni la spensieratezza dell’infanzia e i chiaroscuri sensuali dell’età adulta. A me piace risvegliare il desiderio, ci gioco e mi appaga anche essere fonte di attrazione. Ma il punto è un altro: questa figura di donna bambina rassicura perché ti sembra di conoscerla da sempre, come fosse la tua migliore amica e insieme, forse, la tua amante. Il suo segreto è uno solo: la dolcezza».
Cos’ha imparato dal suo personaggio?
«Più che imparare dal mio personaggio, io ho vissuto nel mio personaggio come fosse una casa costruita per me. Lo so, ora mi chiederà se è stata una prigione. Me lo chiedono tutti».
Lo è stata?
«Per indole, non sono una ribelle e tendo ad assecondare il destino. Sognavo di fare il medico e mi sono ritrovata a cantare. È stata una prigione? Non lo so. Come non so se mi pesi il fatto di non aver avuto dei figli. O di essere sempre considerata la fidanzatina del mio pubblico. Vede, in fondo, io preferisco viverlo il destino, invece di cambiarlo».
Chi ha scritto il suo destino?
«All’inizio, i miei genitori. Innanzitutto papà Alfredo, un medico che ancora oggi tutti ricordano. Se n’è andato più di dieci anni fa. E io non riesco a farmene una ragione: mi manca così tanto, mi manca sempre. Era duro, severo e molto, molto geloso. Era il vero medico di famiglia che si alza all’alba, fa la prima visita alle sette di mattina, poi al pomeriggio in ambulatorio e la sera a studiare per aggiornarsi. Ricordo che portava me e mia mamma, che faceva la sua segretaria, in ospedale. E in ospedale passavo lunghe giornate con lei e con le suore. Fu una di queste, suor Cellina, a dire a mia madre “ma questa bambina canta sempre, perché non la iscrive allo Zecchino d’oro?”. Mamma nemmeno sapeva cosa fosse».
Com’è sua madre?
«Mamma Ornella è l’altra parte del cielo. Da lei ho avuto la formazione più tenera. Ricordo, per esempio, il merlo indiano Spadaccino, che apparteneva a suo padre, il nonno Ennere, che aveva un albergo. Quando lo portarono a casa nostra, che poi era un rifugio di animali domestici, Spadaccino ripeteva all’infinito: “Hai pagato il conto?”, perché era abituato a chiederlo ai clienti dell’hotel. Poi rideva e imitava la voce del nonno. Mamma è sempre stata una luce. E quando papà è mancato, ho iniziato a portarla con me ai concerti. I fan la chiamano la Regina Madre. E lei è sempre lì, al mattino pronta con la valigia per partire, alla sera splendente in prima fila».
Hanno influito molto i suoi genitori sulla sua carriera?
«Non mi hanno mai ostacolata. Ma nemmeno spinta. Papà per me sognava la carriera di medico. Fino all’università, il canto era per me, per noi, solo un hobby. Che anni quelli del Coro dell’Antoniano! Ho un ricordo vago, appena accennato di quando cantai il Valzer del moscerino a tre anni. Fu un successo clamoroso ma per noi bambini era normalità.
Ecco, se c’è una persona che ha influito nella mia formazione è Mariele Ventre, donna eccezionale, pugno di ferro coi bambini: all’Antoniano nessuno doveva pensare di essere un divo, né i bambini né i loro genitori. Si cantava per divertirsi e la disciplina serviva a diventare più bravi. Ho passato tutta l’infanzia nel coro: i concerti, i viaggi in pullman, la tournée in Israele. Quella severità e quel senso del canto e del divertimento sono diventati parte di me».
Poi sono arrivati I Puffi…
«Eh, prima dei Puffi c’è stata in realtà la sigla di Bambino Pinocchio. Funzionava così: ero al liceo e ogni tanto mi chiamavano per registrare una sigla dei cartoni animati. Ero un ingrediente tra i tanti, una bella voce tra tante. Poi, verso la fine del liceo, mi chiamano per questo nuovo progetto, I Puffi. Ricordo mio padre che mi accompagnava a Milano agli studi di registrazione e poi mi aspettava controllando tutto. Quello che successe dopo fu una cosa pazzesca: tutti cantavano quella canzone, il cartone animato divenne un caso arrivando a vendere 500.000 copie del singolo.
Io ero travolta: non ho un carattere da vincente, oggi non potrei mai partecipare a un talent. Il punto di svolta avvenne all’università, quando per la terza volta stavo tentando l’esame di Chimica. Lo scritto andò così così e all’orale il professore mi fece capire che non l’avrei passato di nuovo. Io lo guardai con i miei occhi e lui, sorridendo, mi disse: “Me la canti la canzone dei Puffi?”. Finì che mi beccai un 19. Grazie ai Puffi, ovviamente».
Quindi niente Medicina, era nata una stella.
«Non ancora, in realtà. Tutto divenne chiaro e io lascia l’università a pochi esami dalla fine solo quando mi chiamarono per il telefilm Love Me Licia. La verità è che mandavano le repliche del cartone animato Kiss Me Licia da troppo tempo e i fan iniziavano a chiedere di più. Si facevano ascolti che oggi sarebbero impossibili. Così Alessandra Valeri Manera mi chiamò e mi disse: vogliamo girare un serial e tu sarai Licia. Ci rimasi di stucco.
Ma la cosa che più mi preoccupava, però, erano i capelli: me li dovevano tagliare e stirare tutti i giorni. Piansi, e si optò per una parrucca, che mi accompagnò per tutte le riprese facendomi prudere il capo. Non avevo nessuna base di teatro o di cinema, imparai tutto dai colleghi improvvisando in camerino prima di andare sul set. È stata una scuola eccezionale».
E l’inizio del suo personaggio di fatina.
Una fatina che vive di notte. Fin da piccola sono sempre stata poco mattiniera, ma con gli anni sono diventata proprio notturna. A volte vado a letto alle cinque, alle sei del mattino: mi piace quella sospensione del tempo che avviene di notte, quando nessuno ti chiama e tutto tace. Penso, scrivo, ripenso. È il mio territorio di libertà. Ricordo bene il lockdown di questa primavera, in una di quelle notti decisi di iniziare a dialogare col mio pubblico per intrattenerlo come non potevo più fare dal vivo. Non mi andava di fare come gli altri, di chiamare un collega e fare una diretta. Io volevo parlare direttamente con chi mi segue».
Si parla di nuovo di lockdown, ma è tutto diverso da allora.
«Eh sì, è finita la speranza, l’idea del sacrificio per un momento migliore, per un domani senza il virus. Ma sa che cosa ho imparato? A esorcizzare questa paura, questo momento buio in cui ci siamo ritrovati improvvisamente. Questa pandemia ci ha messi tutti a nudo, ci ha tolto la libertà. Non solo quella di muoverci o di lavorare. La libertà di toccare, di abbracciare, di baciare, di amare. Non puoi stringere una mano, te la devi disinfettare.
CRISTINA D'AVENA ABBARBICATA A ROCCO SIFFREDI
Non puoi sorridere, non si vede sotto la mascherina. Però io non mi rassegno: una sera del lockdown, una ragazza di Brescia si collegò via Instagram e mi raccontò di aver perso i genitori per il Covid. Rimasi senza parole e fu lei a consolarmi: mi disse che non dovevo cambiare le cose, che non potevo, che non era necessario. Voleva solo che la coccolassi. Ecco, per me questo è esorcizzare la paura».
Cosa significa in pratica?
«Significa vivere il potere dei momenti che ancora abbiamo. Amare ancora, abbracciare chi possiamo, fare l’amore quando possiamo, approfittare di ogni singolo secondo come fosse un regalo. Non mi ritenga superficiale. Io penso che la mia vita e la mia carriera mi abbiano insegnato a coltivare una sana dose di fanciullezza. E tornare a essere bambini non significa essere superficiali. Vuol dire, invece, essere più positivi perché i bambini sanno essere leggeri, grande dote, e sanno convivere meglio con i momenti difficili perché posseggono la spensieratezza del reinventarsi».
E come si fa a reinventarsi oggi?
«Non lo so. Non sono cieca, vedo la difficoltà delle nuove generazioni che si trovano muri di fronte. Mancanza di lavoro, mancanza di opportunità. E un orizzonte per niente certo. Non voglio sembrarle supponente, ma ancora una volta io provo ad assecondare il destino. Facevo più di cento concerti l’anno, oggi se va bene ne faccio uno.
La mia carriera sembrava stabile e ripetitiva, poi sono arrivati il Festival di Sanremo e due album di duetti con grandi cantanti. Ci doveva essere un programma tv dedicato ai miei quasi quarant’anni di carriera, ma è stato rimandato. Di notte sto sveglia pensando a cosa posso fare sul web, a come cambiare di nuovo le carte in tavola. Sa di cosa c’è bisogno? Di tolleranza e di speranza».
Si spieghi meglio
«La tolleranza che si sta perdendo per via della faziosità dei social e di tanta politica contemporanea è fondamentale per capire tutto: gli altri, cosa non funziona, cosa funziona, come adattarsi. E la speranza è una sua conseguenza: la speranza è la virtù di chi riesce a vedere la luce in fondo al tunnel. È un esercizio di forza. Ricordo un mio concerto di qualche anno fa.
Pochi minuti prima di salire, chiamo per sapere come stava una mia zia malata a cui ero molto affezionata. Mi dicono che è appena spirata. Arrivo sul palco, scoppio in lacrime e non posso fare altro che raccontare al pubblico come stanno le cose. Poi mi sforzo di cantare e nella mia testa dedico ogni canzone a lei. È stato il momento più difficile della mia carriera. Un esercizio di forza e di speranza, appunto. Quella che serve oggi. Però ho un altro asso nella manica, un amico speciale: Sant’Antonio».
Mi scusi?
«Sì, Sant’Antonio. Guardi, un giorno scriverò un libro sul mio rapporto con lui. Mi aiuta, mi consiglia, è sempre al mio fianco ed è come se facesse piccoli miracoli per me. Ma questa è un’altra storia ed è troppo difficile da spiegare. Più facile parlare di Cristina nei panni di Dita Von Teese».
Com’è stato cambiare così tanto la sua immagine per questa cover?
«È una provocazione, un invito a sciogliersi, a tollerare, ad amare di più, a sperare. Io penso davvero che questo sia da vivere come un momento di prova. E nei momenti di prova bisogna fare soprattutto una cosa: resistere. E non perdere mai la fiducia. Nel mentre, consiglio di chiudere le porte di casa, spegnere i social, tagliare fuori tutto e tutti. E amare. Noi stessi, chi ci è vicino, chi ci ama. Perché se ci si dimentica di amare, ci si dimentica di tutto».
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