Estratto dell'articolo di Lucio Luca per “la Repubblica’
michela murgia con l'oncologo fabio calabro
«Michela mi ha chiamato giovedì mattina. Era molto presto, non l’aveva mai fatto a quell’ora. Era riuscita a dettare l’ultimo capitolo del libro sulla Gpa, la gestazione per altri, un lavoro al quale teneva particolarmente. Voleva che lo sapessi, che ce l’aveva fatta. “Dottore, ora posso andare”, ha sussurrato. E qualche ora dopo se n’è andata. Anche se è difficile per noi che l’abbiamo conosciuta pensare che lei non ci sia davvero più». Fabio Calabrò, direttore di oncologia medica all’Istituto nazionale dei tumori del Regina Elena di Roma, è il medico che ha vissuto con Michela Murgia un calvario lungo un anno e otto mesi.
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“Tre ciotole” comincia con quella frase fulminante, “lei ha una nuova formazione di cellule sul rene”, che fu costretto a dire a Michela Murgia qualche tempo dopo averla presa in cura.
«In realtà io vorrei cominciare dalla prima volta che ci siamo incontrati al San Camillo. La conoscevo, certo, avevo letto diversi suoi libri. Furono alcuni suoi amici a portarla in ospedale perché durante una tournée aveva mostrato segni di affaticamento. Non respirava bene, era molto stanca. Mi aspettavo una donna scontrosa, polemica, forse addirittura incattivita da quello che le stava succedendo. Spesso il paziente identifica il medico con la malattia. Arriva quasi a odiarlo. Percepii in lei, invece, uno sguardo e una accoglienza che non mi sarei mai aspettato. Mi colpì con la sua dolcezza».
Decise di rivelarle subito cosa stava accadendo. E usò una parola che abbiamo quasi timore di pronunciare: cancro. Un carcinoma ai reni al quarto stadio.
«Guardi, ricordo che a quel colloquio era presente anche Alessandro Giammei, il “figlio d’anima” di Michela. Io tentavo di edulcorare la situazione, non me la sentivo in quel momento di essere diretto. Lei però capì e mi chiese soltanto una cosa: quanto mi resta? Poi aggiunse: “Dottore, io voglio continuare a fare la mia vita. Se devo sottopormi a una terapia che mi piega in due e mi rende incapace di lavorare, di scrivere, ci salutiamo qui. In quella fase non era necessario fare chemioterapia, ci lasciammo con un sorriso e un patto».
Quale?
«Che Michela sarebbe stata libera di rinunciare alla cura nel momento in cui le medicine le avrebbero impedito di essere quella che era sempre stata. Io penso che quando si dà una comunicazione corretta a un paziente le si regala la libertà.
Forse per questo ha detto che per lei sono stato un buon medico. Le ho garantito la libertà fino all’ultimo giorno. Ed era tuttoquello che lei desiderava».
Anche la libertà di comunicare la sua malattia…
«Sì, in quell’intervista che ha preceduto l’uscita del libro. Quando Michela disse: “Il cancro non è una cosa che ho, è una cosa che sono. Non posso e non voglio fare guerra al mio corpo, a me stessa. Il tumore è uno dei prezzi che puoi pagare per essere speciale”. Con lei ne avevamo parlato tante volte: il tumore non è una cosa che viene fuori da noi, non è un’epidemia. È un errore di comunicazione del nostro corpo.
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Noi nel tempo ci siamo evoluti tantissimo, abbiamo creato meccanismi sofisticati che, però, sono diventati fragili. È impossibile che in centinaia di migliaia di moltiplicazioni cellulari non si possano verificare degli errori. A volte il sistema riesce a metterci al riparo. Altre volte, purtroppo no.
Ecco perché non ha senso parlare di guerra al cancro, usare verbi bellici come combattere, vincere o perdere. Nella malattia non c’è vittoria e non c’è sconfitta. E nemmeno chi ha colpa o chi ha ragione. È solo un evento della vita al quale dobbiamo essere preparati».
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Qual è il ricordo più forte che le resterà di Michela?
«Sono tanti, ma forse più di ogni altro quella volta che mi disse che quando si vive un dolore bisogna prendere atto che fa parte dell’esistenza, come può essere un momento di felicità. L’unico modo per superarlo è attraversarlo trovando il sentiero giusto. II ruolo del medico è comunicare dove sta questa via. E poi l’amore infinito che è riuscita a trasmettermi.
Non c’è stato un giorno in questi mesi nel quale non abbia trovato il modo di farmi sentire il suo affetto. Sa, spesso quando si lega al proprio medico, un malato di cancro può essere portato a nascondere il suo dolore. Quasi come se non volesse dargli un dispiacere, farlo sentire in colpa. Non sa quante volte ho dovuto chiamare io Michela per farmi raccontare come stesse…».
Chiara Valerio, nella sua orazione funebre, ha detto che Michela Murgia ci ha insegnato che tutto quello che facciamo è politica.
«È così. Io ad esso ricopro un ruolo di direzione in un ospedale pubblico. Ho capito che qualsiasi decisione prenderò, qualsiasi parola, gesto, sarà un atto politico a favore dei miei pazienti. E questo insegnamento lo devo solo a lei».
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