Estratto dell’articolo di Aldo Grasso per il "Corriere della Sera"
Le storie che si intrecciano in «Monsters», la serie Netflix di Ryan Murphy e Ian Brennan (nove episodi) sono agghiaccianti e tragiche. Raccontano l’omicidio compiuto dai fratelli Lyle ed Erik Menéndez, quando, il 20 agosto 1989, uccisero a fucilate nella bella villa di Beverly Hills i propri genitori, José e Kitty.
[…] I ragazzi, che all’epoca del delitto avevano 18 e 21 anni, spiegarono che il loro gesto era dovuto ad anni di abusi sessuali e violenze psicologiche da parte del padre, con la complicità della madre.
La domanda che da anni accompagna il caso è questa: chi furono i veri mostri, i figli o i genitori? Gli autori non tralasciano nulla: né la violenza, né la morbosità, persino incestuosa, né la componente horror che colora ogni immagine.
Eppure, c’è qualcosa che nella scrittura non convince: recitazione sempre sopra le righe, gusto del macabro, lunghe pause in cui la serie stinge nel documentario.
Quello che, ancora una volta, «Monsters» ci chiede è se il male sia rappresentabile […]
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La grande letteratura, il grande teatro, il grande cinema ci sono riusciti.
Ma se cade la mediazione artistica, cosa resta? Restano i pomeriggi televisivi, dove il genere true crime, la cronaca nera, è dominante, dove conduttori e conduttrici, inviati e inviate, ospiti ed «esperti» (criminologi, sociologi e psicoqualcosa) parlano di cose che non conoscono o conoscono in superficie […] per spiegare l’indicibile, l’irrappresentabile.
Come si può dare un giudizio «a caldo» fuori da un contesto clinico di storie che non si conoscono? Ci sarebbe anche una ragione deontologica che suggerirebbe una forma di pudore nei confronti delle famiglie coinvolte, spesso colpevolizzate da commenti affrettati e approssimativi. Siamo diventati tutti Monsters?
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